PALAZZO ARESE BORROMEO (12

VILLA E GHISOLFI, UN CONFRONTO 

Corrado Mauri

Osservando, questi ultimi particolari, mi viene naturale fare un confronto tra la pittura del Ghisolfi e quella del Villa onde valutare se l’ipotesi di assegnare le quadrature alla mano del Villa può reggere. Dobbiamo tener conto che la maggior parte delle assegnazioni degli affreschi ai vari artisti, attualmente, sono più su basi stilistiche e deduttive che non documentarie e quindi anche quelle del Ghisolfi. Recentemente due articoli trattano questi argomenti, di Marina dell’Omo sul Villa e Rosanna Fontana sul Ghisolfi[1], che condivido sostanzialmente. Quindi, ricapitolando, in questa Sala delle Rovine ritengo del Villa le quadrature ed i paesaggi con rovine del Ghisolfi, in merito allo stemma di Alleanza l’assegnazione a Federico Bianchi suggerita da R. Fontana mi vede d’accordo.  L’impostazione ed i particolari delle quadrature corrispondono allo stile e modalità di Francesco Villa, 1608/11 circa – 1673, noto quadraturista dell’epoca, milanese, purtroppo con scarsissima documentazione, sue opere certe nel Duomo di Monza, alla Certosa di Pavia ed al Sacro Monte di Varese. Proprio per quest’ultimo abbiamo una vecchia fotografia in cui sono ancora visibili l’affresco con la Fuga in Egitto di C. F. Nuvolone e le quadrature del Villa, praticamente identiche alle nostre. Solitamente, il Villa trasforma la Sala in una scatola prospettica con pilastri o colonne, a loggia, che si apre su paesaggi immaginari o narrazioni, soffitti e coperture cassettonate con rosoni, accompagnati da consistenti festoni, volute con drappi pendenti e mascheroni e girali fitomorfi. Ovviamente si tratta del repertorio consuetudinario, però il modo di dipingere è tipico per ciascun pittore. Confrontando le parti prettamente architettoniche del nostro palazzo, pilastri, cornici, dove gli elementi decorativi non ci sono, la pittura è compatta, nelle ampie superfici si notano a fatica le singole pennellate. Se confrontiamo queste nostre quadrature con quelle del Ghisolfi alla IV Cappella della “Presentazione al tempio” del Sacro Monte di Varese, si direbbe che è la stessa mano, ma se guardiamo il modo di condurre e fare le pennellate nei particolari allora le cose cambiano. È quasi un automatismo di tutti gli artisti, in ogni epoca, il lasciarsi andare a maggior libertà quando dipingono i particolari, apparentemente meno importanti rispetto ai punti chiave del soggetto o della composizione che sono quelli su cui si concentra lo sguardo dell’osservatore. Basta osservare i due mascheroni della pagina precedente: sono elementi che si aggiungono alla struttura base già definita, il particolare è un ulteriore qualificare, ma non indispensabile.  Nel primo mascherone, se osserviamo bene nella parte di cornice vista dal di sotto possiamo rilevare il segno inciso nell’intonaco fresco che si fa all’inizio nella impostazione compositiva dell’insieme, ma poi vediamo la correzione che allarga la parte sotto, avvenuta dopo la prima stesura pittorica ed al controllo successivo si ritiene di allargarla ulteriormente per una maggiore evidenza ed ecco che osserviamo un tono d’ombra più grigio e scuro che si sovrappone al precedente più chiaro e caldo di tono. Ma l’interessante è nei tocchi che disegnano la maschera: un tono di fondo su cui poi si interviene con pennellate ampie piene di colore nelle luci ed invece un segno sottile e netto, marrone scuro, nel segnare l’ombra, ma scuri e chiari disegnano la forma, non sono indipendenti. Guardiamo le ricche pennellate dei festoni, ampie, un colpo sicuro e netto segue l’andamento della forma della foglia o del frutto, il pennello è pieno di colore e dà effetto di volume. Ogni tanto una pennellata-segno più scura definisce l’ombra.

Vediamo ora come si comporta il Ghisolfi nei paesaggi con rovine. Di Ghisolfi (1623-1683), milanese anche lui, abbiamo molte più notizie. Opera in vari Palazzi del patriziato lombardo ed a Vicenza, realizza affreschi a carattere religioso alla Certosa di Pavia ed al Sacro Monte di Varese. Era un protetto dal cardinale Luigi Alessandro Omodei (cognato di Bartolomeo III), che nel 1650 molto probabilmente lo invia a Roma per studiarne le antichità, in compagnia di Antonio Busca (che incontreremo più avanti). Questo è un caposaldo dell’arte del Ghisolfi, i monumenti della romanità sono l’epicentro di tutta la sua produzione sia ad affresco sia, soprattutto, da cavalletto. Non sappiamo quando rientra da Roma, nel 1654 era ancora nella città, come testimonia Salvator Rosa, artista di riferimento per il nostro e con indubbie collaborazioni per le figure. A Roma operavano già dei pittori che riproponevano le rovine come il Codazzi o il Cerquozzi, ma ciò che caratterizza la produzione ghisolfiana è l’inserimento di episodi della storia antica o della religione nei paesaggi di rovine, anticipando di almeno sessant’anni i “capricci” del Panini, Ricci o Canaletto. Ecco qui due suoi dipinti onde comprendere meglio come poi opera negli affreschi che

stiamo analizzando: a sinistra il “Tributo della moneta”, a destra “Pitagora esce dalla caverna”. È importante la capacità del Ghisolfi di dare una dimensione equilibrata tra rovine e personaggi, sviluppando, così, un nuovo genere. Una sua peculiarità è di saper reinventare i monumenti con un giusto rapporto tra la struttura architettonica e le parti decorative.  Questo rapporto nei nostri affreschi viene meno dando più importanza ai monumenti ed allo spazio, qui vediamo come la necessità di adeguarsi alle esigenze del committente porta a dare delle varianti dimensionali, onde accentuare o meno un certo soggetto (qui le rovine).  Infatti, le figure sono molto piccole, diventano delle presenze tipo macchiette. Nel periodo romano Ghisolfi ha conosciuto bene questo  genere di soggetti, praticato in particolare dalla comunità dei pittori fiamminghi che veniva detta dei “bamboccianti”, a causa dell’interesse per le cosiddette scene popolari che raccontano i vari aspetti della realtà popolare e quotidiana. Ecco così i mendicanti, il cacciatore, dame e cavalieri, la domestica, i pescatori e via discorrendo.

Qui si evidenzia chiaramente la pittura di tocco abile, sicura e di invenzione immediata in queste piccole figure che sono comprimarie al vero soggetto. Modalità che mantiene, quasi immutata anche nella pittura da cavalletto.  Quando dipinge le architetture la sua sicurezza si scioglie ulteriormente, questo accade quando l’artista non solo ha un talento naturale, ma possiede oltre al bagaglio tecnico quello culturale,

conosce già ciò che dipingerà, le forme sgorgano dal pennello senza difficoltà. Ecco che allora riscontriamo quelli che non possiamo chiamare errori, ma frutto della immediatezza creativa: alcune varianti di direzione degli assi prospettici, proporzioni non rispettate nelle volute dei capitelli ionici, variazioni tonali nel tono del materiale delle architetture. Dipinge, disegna, inventa, colora tutto contemporaneamente, è il piacere della Pittura (ho messo la P maiuscola) e lo rivedremo presto nella Boscareccia. Ecco perché è ben riconoscibile lo stile del Ghisolfi, come quello del Villa.


[1] Marina dell’Omo, Quadraturismo e architettura dipinta nel Seicento. Francesco Villa: tracce per una lettura della sua carriera artistica, in “Arte Lombarda”, n° 173-174 2015/1-2, pp. 102-115

Rosanna Fontana, Novità e precisazioni su alcuni cicli decorativi di Giovanni Ghisolfi in Lombardia, in “Quaderni di Palazzo Arese Borromeo”, Anno X, n° 1 – maggio 2017, pp. 4-27 www.vivereilpalazzo.it