Le origini dell’antisemitismo
La principale fonte di notizie sul popolo ebraico è la Bibbia, anche se questo libro non è stato concepito come narrazione storica, bensì come costruzione teologica. Tuttavia è dalla sua lettura che possiamo ricavare le notizie delle vicende che riguardarono gli Ebrei nell’antichità.
Dapprima popolo nomade, dopo varie vicende che più o meno conosciamo tutti in quanto l’Antico Testamento fa parte anche della nostra cultura cristiana occidentale, finì poi per insediarsi in Palestina, dove visse da sedentario fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dei Romani sotto la guida del futuro imperatore Tito, nel 70 d.C.
Questo evento portò quel popolo a disperdersi nel bacino del Mediterraneo approdando anche in Europa dove, con il suo rigoroso monoteismo, si inserì in contesti profondamente diversi, in quanto le popolazioni ospiti erano politeiste. Inoltre, altro elemento di distinzione caratteristico era il mistero che circondava la loro divinità, nel cui tempio era fatto divieto ai gentili di accedere, mentre ad esempio i Romani erano inclusivi ed erano pronti ad accogliere nel loro pantheon le divinità dei popoli di volta in volta conquistati, tanto è vero che uno dei principali atti del generale vittorioso dopo la caduta di una città o di un regno era quello di rendere omaggio alle divinità dei vinti.
Con la diffusione del cristianesimo, poi, il contrasto con la maggioranza divenne ancora più sensibile, anche perché essa riteneva gli Ebrei colpevoli della morte di Cristo. La situazione cominciò a divenire più difficile a partire dal IV secolo, con l’editto di Milano di Costantino (313) e con quello di Tessalonica di Teodosio (380), quando i cristiani ottennero prima libertà di culto, poi videro riconosciuta la loro come religione ufficiale dell’impero. Tuttavia, tutto sommato, si può dire che fino all’XI secolo la situazione, nonostante alcuni pogrom, fu per loro ancora tollerabile.
Le prime macroscopiche violenze esplosero nel 1095 -1096 con la preparazione e poi la partenza dei primi Crociati per la Terra Santa, quando gli Ebrei cominciarono ad essere visti come nemici della “vera fede” perchè responsabili della morte di Gesù, colpa che espiano con la frammentazione del loro popolo. Naturalmente questo argomento non ha niente a che vedere con la realtà storica, in primo luogo perchè un’infima minoranza di Ebrei ebbe a che fare con la morte di Gesù, che fu processato dalle autorità romane, in secondo luogo ci fu chi gli fu accanto fino alla fine, in terzo luogo la stragrande maggioranza di coloro che vivevano lontano da Gerusalemme non seppe mai niente di quanto vi era successo. Tuttavia questo mito si affermò con sempre maggior forza, anche grazie all’adesione ad esso della Chiesa. Infatti nel 1215 fu proprio il IV Concilio Laterano ad imporre agli Ebrei il segno distintivo ( la rotella di tessuto giallo), accompagnato dal cappello a cono. A questa disposizione seguirono i primi ghetti [il termine ghetto deriva dal fatto che vicino al primo ghetto, quello di Venezia, c’era una fonderia, per cui la parola ghetto deriva da “getto” (del metallo fuso) ]. All’inizio non era obbligatorio risiedervi, diventerà norma a partire dal 1516 prima a Venezia, poi a Roma, dove il papa Paolo IV Carafa il 14 luglio del 1555 emanò la costituzione Cum nimis absurdum(Poiché è oltremodo assurdo) in cui obbligava tutti gli Ebrei dello Stato della Chiesa a vivere in quartieri prestabiliti, chiusi da portoni sorvegliati da custodi in cui ciascun ebreo era tenuto a rientrare prima del tramonto.
Solo la Francia nata dalla Rivoluzione nel 1791 istituì, in realtà più in teoria che in pratica, un’uguaglianza legale per tutti i cittadini a prescindere dalla loro fede, che fu mantenuta durante la Restaurazione. Ciò comportò una maggiore accettazione degli Ebrei perché eliminò una condizione di diversità assoggettandoli allo stato senza l’intervento di mediazioni e doveri.
Nell’Ottocento la rapida industrializzazione e la conseguente urbanizzazione dell’Europa occidentale mise in crisi le società europee e il Romanticismo idealista, sostituitosi all’Illuminismo, creò l’idea che un popolo non potesse essere un confuso insieme di persone, ma un soggetto storico dotato di una volontà comune che trascendeva gli individui, identificando lo stato con la nazione e facendo perciò nascere il nazionalismo che considerava il popolo nazione unito da lingua, cultura, geografia, storia e destino condivisi. Se questi elementi formano una nazione è ovvio che gli Ebrei diventano un corpo estraneo. Per giunta nella seconda metà del secolo la teoria darwiniana della selezione naturale nei regni animale e vegetale, basata sull’idea dell’esistenza di una lotta continua tra i vari individui in cui prevalgono i più adatti alle condizioni di vita del momento i quali trasmettono i loro caratteri ai discendenti, finì per essere applicata alla società giustificando la lotta tra i popoli per la sopravvivenza e affermando la necessità e la legittimità del dominio del più forte sul più debole e di conseguenza il colonialismo e l’imperialismo. Bisogna però sottolineare che Darwin non pensò mai di applicare la sua teoria alla società umana e che anzi sosteneva la necessità di agire con mitezza e comprensione nei confronti di tutti i popoli.
Il momento decisivo per arrivare ad una politica antigiudaica contemporanea si ebbe con la prima guerra mondiale e il trattato di Versailles che, dopo la sconfitta, vide la Germania umiliata, enormemente impoverita e costretta a pagare alle potenze vincitrici, quali risarcimento di guerra, cifre enormi, obbligo che non riuscì mai ad assolvere. Senza contare il crollo di Wall Street del 1929 e la gravissima crisi economica che investì tutto il mondo occidentale. Tutto ciò suscitò un enorme desiderio di rivincita e la ricerca di un capro espiatorio a cui addossare le responsabilità della disfatta, che venne identificato negli Ebrei, nei comunisti e nei massoni, accusati di congiurare per impadronirsi del potere a livello mondiale. Addirittura a questo fine vennero diffusi i “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, un documento apocrifo redatto all’inizio del XX secolo in Russia. Il testo consiste di 24 paragrafi o “protocolli”, che sarebbero un discorso tenuto da un dirigente ebreo in 24 riunioni dei Savi Anziani di Sion in cui vengono spiegati i metodi, i dettagli e gli obiettivi di un complotto ebraico, antico di secoli, per distruggere le comunità cristiane ed instaurare un governo mondiale in combutta con la Massoneria. L’edizione originale dei Protocolli non esiste, ogni edizione nazionale corrisponde agli obiettivi di uno specifico antisemitismo, per cui possiamo dire che ognuna di esse è un “originale”. In Italia Giovanni Preziosi redasse il testo in base ad una traduzione inglese del 1920. Ne leggiamo uno stralcio dal Protocollo II riportato da Sergio Romano ne “I falsi protocolli” (pag.174):
La situazione italiana non differì in modo sostanziale da quella del resto dell’Europa, soprattutto di quella occidentale, salvo per il fatto che numericamente gli Ebrei non erano tanti: dal 1800 al 1900 essi, pur aumentando da 34000 a 43000 passarono dal 10 al 4 per cento della popolazione ebraica dell’Europa occidentale. Inoltre il flusso migratorio proveniva non dall’Europa orientale, ma dal Mediterraneo orientale e meridionale, cioè da aree di influenza italiana almeno tendenziale, cosa che favorì l’accettazione da parte degli Italiani stessi.
Il primo principe italiano ad adoperarsi a favore degli Ebrei fu Carlo Alberto di Savoia nel1848, durante la cosiddetta prima guerra di indipendenza contro l’Austria. Nel Regno di Sardegna quindi essi ottennero l’elettorato attivo, i diritti civili, l’accesso al servizio militare ed infine i diritti politici. Naturalmente, ad unificazione avvenuta, la legislazione fu estesa a tutto il regno.
Nella nostra nazione gli Ebrei erano concentrati principalmente nell’Italia centro settentrionale e nelle città più grandi che erano quelle in cui avevano sede le maggiori industrie e in cui il commercio era più sviluppato. Già dall’Ottocento erano ben integrati, tanto che non pochi di essi ricoprirono importanti e delicati ruoli istituzionali quali presidente del Consiglio dei ministri, ministro, parlamentare ecc. Poterono farlo perché, pur non appartenendo tutti alle classi sociali più elevate, erano, per ragioni storiche, mediamente all’avanguardia in tutti i campi. Ad esempio gli adulti analfabeti ebrei erano solo il 5,7 per cento contro il 49,9 per cento del complesso della popolazione; in campo demografico anticiparono di circa cento anni la riduzione dei tassi di natalità e mortalità; le donne ebree furono più solerti nel volontariato filantropico e nel portare avanti il movimento di emancipazione delle donne. Inoltre molti di essi si laicizzarono fino al punto da ignorare quasi di essere ebrei. Ad esempio la senatrice a vita Liliana Segre ha affermato più volte che da bambina praticamente non sapeva cosa volesse dire la parola ebreo perchè la sua famiglia era totalmente laica. Sentiamo la sua testimonianza riportata nel libro scritto assieme a Enrico Mentana, intitolato “La memoria rende liberi” (pag. 27-28):
Con l’affermazione del fascismo molti di loro vi aderirono con convinzione e militarono nelle sue file, anche se ve ne furono pochissimi tra i dirigenti. Infatti nel quinquennio 1933-1938 le iscrizioni al PNF aumentarono da cinquemilaottocento a seimilanovecento, raggiungendo il 27 per cento della popolazione maggiorenne ebraica. Anche quando nel partito prevalse la linea antisemita non si allarmarono più di tanto, sottovalutando il pericolo a cui andavano incontro. Ciò fu possibile prima di tutto perché essi si sentivano prima di tutto italiani e come tali avevano difeso la patria dando il loro tributo di sangue nella prima guerra mondiale, quindi la fiducia nel progressivo incivilimento dell’umanità ed infine il comportamento ambiguo del dittatore.
Gli Ebrei sotto il fascismo
Il primo governo a guida fascista nacque il 31 ottobre 1922; di esso non facevano parte né ebrei né antisemiti e Mussolini mantenne rapporti pubblici e privati con ebrei anche se già quando era socialista aveva manifestato idee antigiudaiche. Prova ne sia che una delle amanti più significative della sua vita, che gli fu accanto per venti anni e che lo aiutò e guidò finché non cadde in disgrazia e si verificò la svolta antisemita, fu proprio l’ebrea Margherita Sarfatti.
Il Duce era opportunista e pragmatico e quindi nel preparare il suo programma politico puntò subito sulla religione cattolica per ottenere il favore della gerarchia della chiesa e del popolo. Siccome nello statuto albertino del 1848 ci si riferiva al cattolicesimo come alla sola religione dello Stato, nonostante le altre confessioni fossero tollerate, già prima del Concordato dell’11 febbraio 1929, che rese quella cattolica la sola religione dello Stato e ne introdusse l’insegnamento nelle scuole elementari e medie “a fondamento e coronamento di tutta l’istruzione pubblica”, venne reintrodotto il crocefisso nelle scuole, negli ospedali e in tutti gli uffici pubblici da cui era stato precedentemente rimosso e rese giorni festivi tutte le più importanti ricorrenze cattoliche.
Dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti avvenuto nel 1924 e il discorso del 3 gennaio 1925, in cui Mussolini, dopo una grave crisi che vide scendere il numero degli iscritti al PNF, si assunse la responsabilità morale e politica di quanto avvenuto e, grazie anche alla passività degli avversari politici, capì che poteva instaurare la dittatura, la situazione divenne più difficile. Le disposizioni del governo non interessarono direttamente gli Ebrei, ma la generale fascistizzazione del paese, di cui naturalmente risentì anche la minoranza. Infatti vennero soppressi tutti i giornali di opposizione, sciolti tutti i partiti antifascisti, aboliti i consigli comunali, sostituiti i sindaci con i podestà di nomina reale, la comunità israelitica venne controllata più da vicino. Anche perché nel frattempo aveva cominciato a diffondersi tra parecchi Ebrei il sionismo, cioè l’idea di trasferirsi in Palestina, patria ideale degli Ebrei, allora sotto il controllo britannico, tanto è vero che Mussolini in un suo articolo, “Una soluzione”, li invitò a chiarire la loro posizione assimilandosi all’Italia fascista e a limitare la loro diversità all’ambito religioso, cosa che la comunità aveva già fatto senza aver pienamente convinto i fascisti oltranzisti. Il duce nel gennaio 1934 aveva inoltre chiesto a cinque ebrei di entrare nella lista per le elezioni politiche del successivo 25 marzo. Ma non ci deve meravigliare il comportamento opportunistico e contraddittorio del capo del governo che già nel 1933 aveva introdotto la prima legge razzista da quando era a capo dello stato. Essa riguardava l’Eritrea e la Somalia, colonie nelle quali, a seguito dell’occupazione italiana, erano nati meticci che, non essendo di “razza bianca”, non ottenevano automaticamente la cittadinanza italiana, a cui avevano diritto solo al diciottesimo anno di età e solo se non poligami, se non riconosciuti colpevoli di reati che prevedevano la perdita dei diritti politici, se erano in possesso della terza elementare, se possedevano un’educazione italiana.
La situazione peggiorò decisamente dopo la conquista dell’Etiopia nel 1935-36 e la proclamazione dell’Impero, quando si passò dal razzismo coloniale a quello puro, basato, per l’ideologia fascista, più sul sangue e sulla razza che su motivi culturali e religiosi. Quasi subito si ebbero le prime avvisaglie della limitazione dei diritti di questa minoranza, con l’allontanamento dal giornale “Il Popolo d’Italia” dei collaboratori ebrei.
Successivamente, il 14 luglio 1938, venne pubblicato il “Manifesto degli scienziati razzisti” che sosteneva l’origine ariana della popolazione italiana che sarebbe stata originata da un ceppo nordico individuato nel polo artico. Quindi il 22 agosto venne eseguito un censimento degli ebrei. Il 6 ottobre il Gran Consiglio del fascismo emanò una dichiarazione sulla razza con la quale vennero anticipati i provvedimenti successivi:
- fu proibito il matrimonio tra ariani ed ebrei;
- vennero espulsi gli Ebrei dal PNF;
- fu vietato agli Ebrei di possedere o dirigere aziende con più di cento dipendenti e di possedere terreni estesi più di 50 ettari;
- gli ebrei furono esclusi dal servizio militare e dagli impieghi pubblici.
Il 17 novembre, poi, il Decreto legge “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” asseriva che:
- gli Ebrei non potevano avere al loro servizio personale ariano;
- potevano essere privati della patria potestà su figli di religione non ebraica;
- avevano capacità giuridiche limitate.
Tra le altre leggi discriminatorie quelle che lasciarono un ricordo molto traumatico negli Ebrei italiani perché colpirono bambini e giovani riguardarono la scuola.
Leggiamo alcuni articoli del Decreto Legge 5 settembre 1938 da “Storia della Shoah” vol. 10 a cura di Giovanni Borgognone (Pag. 111-112):
Dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio1943, la fuga del re e del nuovo governo Badoglio a Brindisi e l’armistizio dell’8 settembre, il nuovo capo del governo annunciò, il 22 settembre, l’abrogazione delle leggi razziali, che furono definitivamente cancellate dal Consiglio dei Ministri nelle sedute del 27 e 28 dicembre, come del resto era stato richiesto dagli alleati nel secondo testo di armistizio.
Ma nell’ Italia occupata dai Tedeschi, dove fu istituita la Repubblica Sociale Italiana dopo la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, la situazione peggiorò in maniera drastica e si passò a quella che in Germania durante la conferenza di Wansee (1942) era stata chiamata “soluzione finale” cioè l’eliminazione fisica di tutti gli Ebrei. I perseguitati effettivi furono circa 43000 di cui 33000 ebrei.
La linea del fronte si attestò prima sulla linea Gustav, che andava dalla foce del Garigliano, che segna il confine naturale tra Campania e Lazio, a Ortona, 25 km. a sud di Pescara. Successivamente il fronte si spostò sulla linea Gotica, che va dalle Alpi Apuane all’Appennino tosco emiliano ed emiliano romagnolo, cioè da Massa Carrara a Pesaro.
La capitale della Repubblica non fu stabilita a Roma, dichiarata “città aperta” (città consegnata al nemico senza combattere per evitarne la distruzione), ma sulla riva occidentale del lago di Garda, da cui il nome di Repubblica di Salò, anche se a Salò c’era solo il ministero degli Esteri e Mussolini risiedeva a Gargnano, poco più a nord.
Alcuni ritengono che questa fase della persecuzione fu soprattutto voluta dai Tedeschi che ritenevano gli Ebrei corresponsabili degli avvenimenti del 25 luglio e dell’8 settembre, ma non è esattamente così, anche se evidentemente le misure prese nei loro confronti si rifacevano alle leggi di Norimberga del 1935. In realtà le strutture della nuova repubblica collaborarono attivamente a fornire gli elenchi del censimento effettuato antecedentemente (invano la comunità ebraica ne chiese la distruzione) e parteciparono alle operazioni di rastrellamento e di cattura effettuate dai Tedeschi mettendo a disposizione polizia, carabinieri, brigate nere e un gruppo di SS italiane. Inoltre il governo repubblichino emanò una vera e propria legislazione antigiudaica e informò tramite stampa la popolazione che erano state ripristinate le norme antiebraiche abrogate dopo il 25 luglio e ne annunciò ulteriori, cioè la confisca dei beni mobili e immobili, di cui si occupò l’EGELI (ente di gestione e liquidazione immobiliare), la limitazione delle attività professionali, una decisa discriminazione razziale, l’internamento nei campi di concentramento, visto che erano stranieri e quindi appartenevano a nazione nemica. Le vittime furono così raccolte nei campi di concentramento per poi essere avviate in Germania nei campi di sterminio prevalentemente situati in Polonia e in Germania. Pochi di loro tornarono, tanto è vero che la popolazione ebraica in Italia dopo la guerra era in pratica dimezzata. Vi furono casi, però, in cui le vittime furono uccise direttamente nella nostra penisola, come nel caso dei 75 ebrei uccisi per rappresaglia assieme a 260 non ebrei alle Fosse Ardeatine a Roma (24 marzo 1944), dei 56 gettati vivi nel lago Maggiore sulla sponda piemontese (1943), di quelli trucidati a ridosso della Linea Gotica ed infine dei sei detenuti nel carcere di Cuneo, morti per mano di Italiani.
Coloro che invece venivano deportati, venivano prelevati per le strade o da casa e avevano venti minuti di tempo per prepararsi portando, secondo le istruzioni degli aguzzini, vestiario, denaro, gioielli e cibo per circa una settimana. Dopo di che venivano portati nei campi di concentramento per poi essere trasferiti in Germania o in Polonia nei campi di sterminio. Come fosse il viaggio verso una quasi sicura morte ce lo testimonia in maniera chiara e significativa Piero Caleffi, deportato per motivi politici a Mauthausen, in “Si fa presto a dire fame” (pag. 111-112):
Giunti a destinazione, dopo aver lasciato i loro bagagli che finivano nel cosiddetto “Canada”, cioè una baracca in cui i beni erano selezionati per i civili ariani tedeschi, le donne con i bambini venivano separate dagli uomini, quindi un medico delle SS effettuava la selezione dopo uno sguardo veloce per decidere se le persone erano adatte per età e salute al lavoro schiavistico. Gli anziani, le donne incinte e le madri con bambini piccoli erano mandate subito a sinistra, senza essere nemmeno registrati, e finivano immediatamente nelle camere a gas, gli altri andavano a formare la fila destra ed entravano nel campo dove venivano denudati, marchiati con un numero che da allora in poi diveniva il loro nome, vestiti di stracci o di una divisa a righe e costretti a lavorare, a volte anche senza alcuna utilità pratica, visto che il fine era quello di ucciderli per fame, fatica e disperazione. La prima non era l’unica selezione, esse venivano programmate sistematicamente per eliminare gli individui ormai inadatti al lavoro e fare posto ai nuovi arrivi.
Cosa fosse la vita nei lager è testimoniato in modo chiaro da Primo Levi in “Se questo è un uomo” (pag. 79-81):
I soccorritori
Nel settembre del 1943 in Italia le autorità erano informate, direttamente o indirettamente , della politica di sterminio attuata nei paesi occupati, mentre, almeno all’inizio, la popolazione ne sapeva poco o niente e, quando si cominciò a sospettare o capire cosa stava succedendo, la maggior parte dei non ebrei si mostrò indifferente o desiderosa di non andare incontro a guai con la polizia, anche se il codice penale di allora non conteneva alcun articolo che prevedesse punizioni e tanto meno la pena di morte per aver aiutato gli Ebrei. Era punito solo chi avesse distribuito stampa clandestina, aiutato partigiani, nascosto militari alleati o radio ecc. Inoltre sull’atteggiamento degli Italiani, in maggioranza cattolici, influì anche l’idea sostenuta dalla chiesa che gli Ebrei fossero deicidi. Ciò naturalmente non voleva dire che i soccorritori non rischiassero niente, perché le bande fasciste prima e i Tedeschi occupanti poi non si attenevano certo alla legislazione vigente. Perciò chi aiutò i perseguitati dimostrò comunque coraggio e umanità.
Come esempio dei non molti civili che furono dalla parte degli Ebrei cito una delle storie narrate da Rosetta Loy ne “La parola ebreo” (pag. 131-132):
Anche la chiesa cattolica fu coinvolta nell’opera di salvataggio degli Ebrei, ma la posizione di questa istituzione nel dopoguerra suscitò un acceso dibattito perché mentre alcuni sottolinearono alcune prese di posizione positive della chiesa, altri fecero notare che l’aiuto venne soprattutto dalle azioni e decisioni dei singoli e che la chiesa non prese mai posizione ufficiale contro il fascismo e il nazismo. Ciò orientò la popolazione a considerare generalmente con scarso interesse la questione, anche se amici, conoscenti, vicini di casa cominciarono a sparire senza fare ritorno.
I papi del ventennio, come le alte gerarchie ecclesiastiche, erano in maggioranza convintamente fascisti in quanto erano preoccupati per l’eventuale dilagare del comunismo e perché ancora gli Ebrei erano considerati deicidi, tanto che nella processione solenne del Venerdì Santo, quando si pregava per i vari peccatori, “pro perfidis judaeis” lo si faceva inginocchiandosi, mentre per gli altri si rimaneva in piedi. Bisognerà aspettare Giovanni XXIII e la sua riforma liturgica perché inginocchiarsi e la parola perfidis venissero abolite, anche se si continua a pregare perché gli Ebrei si convertano.
Nel periodo che consideriamo assursero al soglio pontificio due pontefici: Pio XI (Achille Ratti) che regnò dal 1922 al 1939 e Pio XII (Eugenio Pacelli) (1939- 1958), segretario di stato che nel luglio 1933 firmò il Concordato tra la Chiesa e il Terzo Reich, provocando il sollievo di Hitler che lo aveva fortemente voluto perché creava un’atmosfera di fiducia che non avrebbe ostacolato i piani antiebraici.
Pio XI era in buoni rapporti con Mussolini, ma nutriva non pochi dubbi su Hitler. Tuttavia a poche settimane dalla nomina di Hitler a cancelliere sembrò aver cambiato idea, tanto che confidò all’ambasciatore francese che apprezzava la denuncia categorica che quegli aveva pronunciato contro il bolscevismo, spingendo i vescovi tedeschi a non fare più opposizione.
Fu quando il dittatore iniziò a perseguitare i cattolici che Pio XI cominciò a preoccuparsi, per cui nel 1937 emanò l’enciclica “Mit brennender sorge” (Con viva ansia), per cercare di tutelarli, spezzando una lancia anche a favore degli Ebrei, ma certamente in via subordinata, tanto è vero che nei primi mesi del governo nazista era stato Mussolini a suggerire a Hitler di non perseguitare gli Ebrei e non il papa.
Anche l’appoggio al cosiddetto “uomo della provvidenza” cominciò a vacillare con la promulgazione delle leggi razziali nel 1938, ma il papa decise di non pronunciarsi contro purché il regime mantenesse un trattamento favorevole all’Azione Cattolica, come era stato precedentemente concordato. Inoltre la sua preoccupazione concerneva più gli Ebrei convertiti al cattolicesimo e le coppie miste sposatesi in chiesa, matrimoni a cui voleva che lo stato riconoscesse validità civile.
A partire dal 1937, tuttavia, Pio XI cominciò a maturare la consapevolezza che nazismo e cristianesimo fossero inconciliabili, per cui decise addirittura di fare da tramite tra gli Inglesi e i militari tedeschi che complottavano contro Hitler.
Ma la situazione ebraica si aggravò ulteriormente, per cui egli chiese a tre gesuiti, John La Farge, Gustave Desbuquois e Gustav Gundlach, di preparare la bozza di un’enciclica: “Humani Generis Unitas”, in cui condannare il nazismo in quanto contrario alla fede cristiana.
Leggiamo dell’enciclica il cap.5. art. 131-132, riguardanti gli Ebrei:
Quando, dopo vari passaggi di mano, finalmente l’enciclica arrivò, rimaneggiata, al papa, questi decise di farla stampare e di distribuirla ai vescovi e agli esponenti dell’alto clero nella riunione del 12 febbraio, dopo aver festeggiato, l’11 febbraio con Mussolini, il decimo anniversario dei Patti Lateranensi. Ma nelle prime ore del 10 febbraio il papa, già da tempo gravemente malato, spirò e il testo sparì ad opera del cardinale Eugenio Pacelli. Ci vollero decenni prima che se ne ritrovasse la copia, in fondo meno dura nei contenuti di quanto si pensasse. Naturalmente non possiamo sapere se quest’enciclica avrebbe potuto cambiare il destino di milioni di Ebrei, dato il carattere di Hitler e del regime nazista.
A Pio XI successe proprio Pacelli col nome di Pio XII in onore del suo predecessore, ma anche della linea tradizionalista tenuta da Pio IX e Pio X.
Pio XII ebbe, nei confronti della tragedia che si stava verificando in Europa, un atteggiamento molto controverso. Sembra che in privato si dolesse delle notizie che apprendeva dai suoi prelati, ma non espresse mai una protesta ufficiale, accennando solo, nel discorso del Natale del 1941, a chi veniva perseguitato per la sua razza. Anche quando iniziarono ad essere deportati gli Ebrei di Roma, egli fece due interventi semi-ufficiali presso i Tedeschi perchè gli arresti fossero sospesi per mantenere pacifici rapporti fra Chiesa e Comando militare tedesco. Ma non andò oltre, per cui i Tedeschi agirono di conseguenza. Ciò suscitò lo sconcerto di chi avrebbe auspicato un intervento chiaro soprattutto contro il genocidio degli Ebrei, che gli era ben noto, arrivando ad accusarlo di filonazismo, visto che dal 1917 al 1929 era stato nunzio apostolico prima a Monaco poi a Berlino e visto il suo amore per tutto ciò che era tedesco.
I difensori della sua linea di condotta sostennero invece che la sua cautela fu dovuta alla consapevolezza che il fanatismo nazista non si sarebbe fermato neanche dopo una protesta del Vaticano, ma che anzi la situazione sarebbe potuta peggiorare e che inoltre il papa non aveva poteri tali che una sua azione avrebbe potuto essere veramente significativa. Visti i dati raccolti a posteriori, è immaginabile che la sua fu una scelta strategica che gli venne riconosciuta come valida dagli stessi Ebrei. Insomma la sua azione fu improntata a un atteggiamento di neutralità e di equidistanza che però nel caso di un genocidio non mi pare possa valere come norma, anche perché, come già detto, i cattolici avrebbero mostrato una maggiore coscienza del problema e forse anche più solidarietà con i perseguitati. Per giunta nell’estate del 1943, dopo la caduta di Mussolini, si espresse in senso contrario alla completa abrogazione delle leggi razziali che gli Ebrei avevano chiesto e che Badoglio rimandò a data da destinarsi.
In campo cattolico chi non accettò i dictat fascisti furono i boy scout la cui organizzazione venne soppressa nel 1928. In Lombardia, costretti ad interrompere la loro attività improntata a valori quali la lealtà, l’onestà, il rispetto e il soccorso dell’altro, cominciarono ad operare in clandestinità con il nome di “Aquile randagie”, aiutando gli oppositori del regime. Nel 1943 fondarono l’OSCAR (Organizzazione Soccorso Cattolico Antifascisti Ricercati) che non solo portò in salvo molti partigiani, facendo passare loro le Alpi attraverso la val Codera, sull’alto lago di Lecco, ma fece altrettanto con ben duemila Ebrei. Il vescovo locale era a conoscenza del loro impegno, che approvava, ma non voleva che la chiesa fosse coinvolta nella faccenda, seguendo la linea di prudenza della Santa Sede.
Naturalmente gli Ebrei stessi si diedero da fare per aiutare i loro correligionari, appena i nazisti nel 1933 iniziarono la loro opera persecutoria. L’azione era coordinata da un comitato presso l’Unione delle Comunità Israelitiche d’Italia a Roma a cui si rifacevano i comitati di assistenza delle varie città. L’organizzazione era conosciuta con l’acronimo DELASEM (Delegazione per l’assistenza degli emigrati ebrei). Naturalmente i primi assistiti furono gli Ebrei tedeschi e quelli dei paesi occupati da Hitler.
Nel 1938, con il varo delle leggi razziali in Italia, l’impegno si estese a questa nazione, giacché Mussolini decretò che tutti gli Ebrei immigrati in Italia dopo il 1918 dovevano abbandonare il paese entro sei mesi, pena l’espulsione. Le immigrazioni con uno speciale visto turistico, però, continuarono ancora per un anno. I profughi tuttavia non potevano lavorare, per cui fu necessario provvedere al loro sostentamento.
Nel luglio del 1939 il comitato milanese, che era il più importante per la posizione geografica della Lombardia, vicina alla Svizzera, e perché più ricca di possibilità di lavoro, venne sciolto, ma poi fu ripristinato, a patto che facesse capo all’Unione delle Comunità Israelitiche, perché senza di esso era difficile far partire gli Ebrei.
Gli aguzzini
Dopo la guerra la cattiva coscienza degli Italiani, che secondo me non hanno ancora fatto i conti con il Ventennio, inventò il mito degli “Italiani brava gente”, sottolineando soprattutto gli episodi di sostegno e dimenticando la collaborazione delle forze dell’ordine, dei funzionari dello stato, delle bande fasciste e dei civili. D’altra parte prima che nascesse la RSI lo stesso Mussolini disse di voler “discriminare, non perseguitare”. Le cose naturalmente cambiarono dopo l’occupazione tedesca. In Germania fin dalla campagna di Russia nel 1941 si erano eliminati gli Ebrei e i soldati russi con le fucilazioni in massa ad opera degli einsatzgruppe, volontari comandati dagli ufficiali dell’esercito incaricati di rastrellare tutti i civili e i militari sulla linea del fronte e di ucciderli dopo aver fatto scavare loro la fossa in cui sarebbero caduti, a volte ancora vivi. In Italia questi gruppi non furono formati, operarono l’esercito e le SS.
I metodi di sterminio
Oltre alla fucilazione, come alle Fosse Ardeatine a Roma (1944) o alla morte anche per annegamento come sul lago Maggiore (1943), gli Ebrei italiani venivano rastrellati per strada o nelle case, costretti a prepararsi per un viaggio per ignota destinazione in venti minuti, invitati a portare con sé viveri per una settimana, abiti denaro e gioielli, caricati su camion e portati nei campi di concentramento. Di qui poi venivano fatti salire su treni con vagoni utilizzati per il bestiame e avviati ai campi di sterminio siti prevalentemente in Polonia e Germania. Nei campi di sterminio morivano per fame, malattie, lavori forzati, quindi erano eliminati in camion sigillati ermeticamente e poi riempiti con i gas di scarico dei motori oppure nelle camere a gas. Il lavoro divenne più rapido ed efficiente quando si cominciò ad usare lo ziklon B, ovvero l’acido cianidrico, un potente insetticida usato per le disinfestazioni delle baracche dei prigionieri. L’idea fu del vicecapo di Rudolf Hoss, come racconta lui stesso nella biografia scritta in carcere in attesa del verdetto dei giudici di Norimberga.
Leggiamo la sua testimonianza da “Comandante ad Auschwitz” (pag. 128-129)
I luoghi di raccolta
I luoghi in cui furono internati gli Ebrei nacquero e si moltiplicarono col passare del tempo e col mutare della situazione politica.
La cartina che vi mostro indica in modo evidente che tutta l’Italia fu interessata al fenomeno e che perciò non si poteva non sapere ciò che stava succedendo. Anche personalmente ho fatto esperienza del fatto che si tende a dimenticare il cono d’ombra che investì la nostra nazione nel ventennio. La scorsa estate ero nei pressi del lago Trasimeno che a me ricordava la battaglia del 24 giugno 217 a. C. in cui Annibale sconfisse i Romani durante la seconda guerra punica. Il lago ha tre isole, io sono andata a visitare l’Isola Maggiore, ricca di monumenti storici risalenti al Medioevo. Tra di essi un castello chiuso perché sotto sequestro giudiziario. Poiché non era visitabile ho cercato notizie e immagini in Internet e ho scoperto che quel castello fu campo di concentramento per gli Ebrei e che essi furono aiutati a sfuggire al rastrellamento per la deportazione grazie all’impegno del parroco e dei pescatori che li portarono sulla terraferma con le loro barche. Di tutto ciò non vi era traccia in nessun depliant, cartello, pubblicazione turistica. Quindi il turista che si reca sull’isola non sa che fu anche luogo di sofferenza per decine di persone innocenti.
Per ritornare ai luoghi di raccolta, i primi a nascere furono i campi di internamento, che non sono tipici del fascismo o nazismo, ma sono adottati da tutte le nazioni in tempo di guerra per controllare i cittadini dei paesi nemici presenti sul proprio territorio o gli avversari politici, le sospette spie o coloro che sono ritenuti comunque pericolosi per la nazione. Sorgono lontano dalla linea del fronte, in località non militarmente importanti, ma non necessariamente isolate, tanto è vero che possono essere anche città. Gli internati venivano di solito concentrati in castelli, ville, conventi, colonie, sale cinematografiche ecc., potevano mantenere contatti, anche se limitati, con la popolazione locale, ma erano soggetti a una disciplina simile a quella carceraria con appelli, oscuramento notturno ecc. Non erano costretti a lavorare e a chi non possedeva mezzi di sussistenza propri lo stato versava un piccolo sussidio che permetteva di non morire di fame. Gli Ebrei vi venivano inviati solo se antifascisti, fino al 25 luglio1943. Non erano perseguitati per la loro razza, tanto è vero che l’Italia continuò ad accogliere profughi ebrei di paesi occupati dai Tedeschi e Mussolini si vantava della sua generosità contrapponendola alla crudeltà nazista.
Per questi campi, già esistenti nella seconda metà dell’Ottocento e divenuti prassi ordinaria con la prima guerra mondiale, non esisteva nessun accordo internazionale specifico, per cui ci si atteneva alla convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra siglata nel 1929.
Con l’entrata in guerra si passò ai campi di concentramento.
Anche questi non erano necessariamente campi con baracche, potevano essere luoghi vari come per i campi di internamento e spesso erano anche carceri. Di solito il trattamento non era disumano, ma comunque queste persone innocenti vennero private della libertà e i luoghi spesso malsani e la scarsità di viveri segnarono la loro esistenza indebolendoli, facendoli ammalare e offendendo la loro umanità tramite l’ingiustificata privazione della libertà.
Con la nascita della RSI i campi di concentramento sul territorio occupato dai Tedeschi si trasformarono in anticamera della morte, perché i prigionieri cominciarono ad essere trasferiti nei campi di sterminio, dislocati soprattutto in Polonia e in Germania. In questi campi, soprattutto dopo che fu decisa la soluzione finale nella conferenza di Vansee del gennaio 1942, le vittime erano costrette ad un pesantissimo lavoro schiavistico che, unito alla sottoalimentazione, al freddo e alle torture portava in breve, circa tre mesi, alla morte.
In Italia l’unico campo di sterminio fu la risiera di San Sabba, presso Trieste, il cui forno crematorio fu fatto saltare dai Tedeschi per non lasciare tracce.
La RSI aveva invece previsto ventotto campi di concentramento provinciali e uno nazionale a Fossoli.
Contemporaneità fascismo e antisemitismo
Per concludere vorrei dire due parole sull’attuale dibattito che divide storici di professione e giornalisti sull’attualità o meno del fascismo e dell’antisemitismo.
Per quanto riguarda l’antisemitismo è facile ricordare le minacce di morte contro la senatrice a vita Liliana Segre, gli atti di vandalismo contro i cimiteri ebraici, l’appellativo “ebreo” lanciato con disprezzo contro Gad Lerner e potremmo citare altri mille casi del genere.
Riguardo poi al fascismo, una parte degli studiosi sostiene che esso è un fenomeno storico collocabile in un momento preciso e non riscontrabile nella realtà odierna perché a qualsiasi movimento attuale mancano le caratteristiche complessive che furono tipiche del fascismo stesso: partito milizia, autoritarismo, totalitarismo (desiderio di plasmare il cittadino in ogni campo della sua vita, anche quella privata), nazionalismo esasperato, razzismo, sospetto per il mondo intellettuale, appello alla frustrazione delle classi medie, populismo.
Qualche mese fa partecipai ad una conferenza organizzata dal comune di Cesano Maderno sull’argomento. Il relatore, professor Emilio Gentile, docente all’Università di Roma, esordì dicendo che chi afferma che oggi si può parlare di fascismo è ignorante e che la prima cosa che avrebbe chiesto a chi avesse obiettato sarebbe stata: “Dov’è il partito milizia? dov’è il totalitarismo? ecc.” Altri invece, come Umberto Eco, hanno sostenuto che “è sufficiente che una di loro (caratteristica) sia presente per far coagulare una nebulosa fascista”. Personalmente penso che la diatriba sia in parte ingiustificata soprattutto per motivi linguistici: le parole hanno una loro vita, oggi noi usiamo parole che per forma (significante) sono uguali a termini di secoli addietro, per esempio medioevali, ma veicolano un significato completamente diverso, da qui la difficoltà di interpretazione di alcuni testi antichi. Nel linguaggio quotidiano genericamente chi commette un sopruso, è estremamente autoritario e così via è “fascista”. Chi di noi può dire di non aver mai usato in questa accezione la parola? Certo uno storico di professione che analizza in modo preciso ed approfondito il periodo storico in questione non può non registrare tutte le specificità del caso, ma è pur vero che il pericolo di un’involuzione autoritaria al servizio di pochi non è mai da sottovalutare e questo in fondo, secondo me, se non ho capito male, è ciò che sostiene lo stesso Gentile quando afferma che il pericolo vero non sono i fascisti veri (e ce ne sono) o presunti, ma i “democratici senza ideale democratico”, nelle quali “il popolo sovrano è chiamato periodicamente ad esercitare il diritto di voto, come una comparsa che entra in scena solo al momento delle elezioni, per poi tornare dietro le quinte, mentre sulla scena dominano caste, oligarchie, consorterie, generatrici di diseguaglianza e corruzione”. Quindi, come che lo si voglia chiamare, il pericolo non è quello di una deriva autoritaria e liberticida? Personalmente, perciò parlerei di “Fascismo” (con la maiuscola) per indicare il periodo storico novecentesco in Italia e “fascismo” (con la minuscola) per atteggiamenti che richiamano caratteristiche tipiche del Fascismo o Fascismi storici nel linguaggio comune attuale, cioè autoritarismo, violenza, anche solo verbale etc.
Del resto chi di noi che ha a cuore il rispetto dei diritti umani e difende i principi costituzionali di libertà ed eguaglianza non vede in questi atti un pericoloso segnale e non ritiene di doverli condannare ed arginare per evitare che si diffondano e divengano pratica comune ed odio diffuso? Chi non sa che i diritti conquistati non lo sono una volte per tutte, ma vanno difesi costantemente perché, soprattutto in periodi di scontento e di crisi come quello attuale, il pericolo di una degenerazione autoritaria, il desiderio dell’uomo forte che risolva i problemi spesso possono sembrare a tanti una soluzione? Non a caso un sondaggio ha rivelato, secondo una notizia diffusa dai mass media, che il 40% degli Italiani pensa proprio a questa soluzione per risolvere i problemi attuali. Certo oggi non viviamo in un regime fascista, ma, secondo me, esiste un fascismo ( nel senso comune del termine) sotterraneo che tenta di emergere e da cui non bisogna distogliere l’attenzione per preservare la democrazia e la convivenza civile.
Ad autorevole conferma e sostegno delle mie opinioni vorrei farvi conoscere il pensiero del Sindaco di Stazzema, Maurizio Verona, che è anche Presidente del Parco Nazionale della Pace e che ha inviato via email a tutti gli iscritti all’Anagrafe nazionale antifascista, fra cui ci sono anch’io, la seguente lettera
metto insieme alcuni eventi accaduti: insulti e minacce ad Emanuele Fiano, definito un ‘ebreo di merda’, manifesti insultanti nei confronti di Laura Boldrini attaccati sui muri di varie città d’Italia, un raduno fascista a Predappio, due ragazzi vestiti da nazisti a Lucca con persone che chiedono un selfie, un giornalista minacciato di morte per il suo libro sul neofascismo a Brescia, un insegnante che minaccia gli studenti che vogliono manifestare, un altro che porta via la sua classe durante la presentazione di un libro sui processi ai fascisti di uno storico serio perché accusato di fare propaganda. E se non bastasse: la senatrice Segre sotto scorta, un arsenale di armi con esplosivi, residuati bellici e svastiche, trovato a Siena, la Digos che con l’operazione ‘Ombre nere” porta alla luce l’esistenza del tentativo di costituire un’organizzazione filonazista, xenofoba, antisemita, un giornalista di grido che nel suo salotto e nei suoi libri spreca trasmissioni e tempo per tranquillizzare sul fatto che il fascismo non può ritornare.
E’ il bollettino degli ultimi giorni: eppure qualcuno continua a dire che non sta succedendo nulla. Anni di silenzio, di colpevole indifferenza delle istituzioni, hanno alimentato questo fenomeno, sottovalutato e ancor peggio tollerato, sdoganato, legittimato come opinione politica
Il fascismo non è mai morto: è rimasto sotto traccia nei primi anni dopo la guerra, alimentando il mito degli “italiani brava gente”: come se in Libia, Grecia, Iugoslavia gli italiani non si fossero macchiati degli stessi crimini dei nazisti, compiuti anche in Italia contro donne, vecchi, bambini da reparti della Guardia Nazionale Repubblicana, della X Mas. Il fascismo è rimasto sotto traccia negli apparati dello Stato, è rimasto nelle repressioni, poi nelle stragi fasciste del terrorismo nero, nei depistaggi per creare la strategia della tensione che voleva portare ad una svolta autoritaria nel nostro Paese, nelle connivenze con la Mafia, la ‘ndrangheta per delegittimare e colpire lo Stato. È rimasto nelle formazioni paramilitari negli anni della Guerra fredda.
Oggi tornano le divise, i simboli, partiti politici che si richiamano apertamente al fascismo: e noi dovremmo essere tranquilli.
La democrazia non si completa solo nell’esercizio del voto e sono certo anch’io che continueremo a recarci alle urne. Allo stesso tempo sento il rischio di vivere in una “democrazia fascista”, in cui restano le apparenze o i simulacri di una democrazia, in cui il diritto di esercitare liberamente il proprio pensiero è solo una enunciazione di principio o si riduce alla possibilità di scrivere di tutto sui social, alla libertà di fare disinformazione, di infangare gli avversari, di esporre simboli vietati dalla Costituzione.
Una società in cui prevalgono la violenza, l’odio, il rancore, la paura. Dovremmo essere tranquilli? A me sembra di vivere in una società inquinata: come al tempo del fascismo.
Il Presidente del Parco Nazionale della Pace
Maurizio Verona
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