La Pittura: una scelta immediata e quasi obbligata
di Corrado Mauri
(testo del Quaderno di Palazzo Arese Borromeo – Ass. Vivere il Palazzo e il Giardino Arese Borromeo, catalogo della mostra Antologica a Palazzo Arese Borromeo, nell’aprile 2015)
L’idea di realizzare una Mostra Antologica mi è nata nel 2014 riflettendo sul fatto che in Cesano Maderno sono conosciuto per una serie di attività che mi hanno portato ad una costante partecipazione pubblica per lo stretto rapporto di collaborazione con l’Amministrazione Comunale. Al mio arrivo a Cesano da Milano, nel novembre 1996, date le mie specifiche competenze, visitai immediatamente Palazzo Arese Borromeo rimanendone immediatamente affascinato, mi iscrissi così all’Associazione Amici di Palazzo e Parco Arese Borromeo, divenendone poi presidente dal 2004 al 2006. Nel frattempo avevo partecipato al progetto di fondazione dell’Agenzia per il Turismo e la Cultura di Cesano Maderno inaugurata nel 2004, dopo la presidenza di Sandro Vitiello, di cui ero vicepresidente, dal 2008 ne divento presidente, avvalendomi della indispensabile e fondamentale amicizia e collaborazione di Luciano Strada. L’Agenzia organizza eventi di qualità sia culturali sia di intrattenimento, che rendono la città di Cesano molto viva e attiva, esempio e polo di attrazione anche per le città vicine, sino alla sua chiusura, voluta unilateralmente dall’Amministrazione Romanò.
Dal dicembre 2006, con la fondazione dell’Associazione Vivere il Palazzo e il Giardino Arese Borromeo, il profondo amore per il Palazzo si manifesta in vari modi, soprattutto nel suo continuo studio, del resto come per gli altri soci, ma operativamente anche qui, ricoprendo il ruolo di presidente, sino al dicembre 2015.
Non ultima, nel 2005, la creazione della Domus Picturæ grazie ad alcuni allievi, quale Scuola di Pittura in Cesano, si veda l’apposito capitolo del sito.
Proprio la mia Pittura, dunque, è la parte che i cesanesi, tranne alcuni amici che frequentano la mia casa ed i miei allievi (e non tutti) non conoscono assolutamente. Ecco quindi il desiderio di mostrare ciò che per me è stato il punto di riferimento fondamentale della mia vita, il perno intorno al quale tutto è girato e dipeso.
La mia fortuna è stata che sin dall’età di dieci anni circa (sono nato nel 1944), mi si è manifestato in modo perentorio il piacere e l’interesse per la pittura. Ricordo che il mio primo dipinto lo realizzai a quell’età prendendo un’asse e, ricopertala con un pezzo di stoffa bianca e fissatala con chiodi sui lati, come appunto le tele dei pittori, vi dipinsi con dei colori, già in tubetti e regalatemi a Natale, un soggetto indefinito, una libera composizione di colori, già astratta ma all’interno della quale apparivano delle tastiere di pianoforte. Il fascino dei colori, il tentativo di creare un’armonia e il senso del ritmo si manifestarono in questa mia prima opera, che tutt’ora conservo. Il secondo quadro fu una copia di un dipinto di Salvador Dalì “la giraffa in fiamme”.
Questo mio amore per la pittura fu compreso, ben presto, dal mio professore di lettere delle scuole medie Ferdinando Bruno, che era anche un pittore dilettante, il quale durante le interrogazioni mi chiedeva di spiegargli non solo i brani dei testi o delle poesie dell’Antologia, ma in particolare i dipinti che illustravano il libro, ovviamente con mia grande soddisfazione e gioia. Fu praticamente solo lui, col professore di disegno ovviamente, ad apprezzare pienamente le mia passione. In famiglia c’erano delle perplessità che si manifestarono apertamente quando al termine delle medie si doveva scegliere l’indirizzo della scuola superiore. Gli insegnanti e l’esame psicotecnico consigliavano chiaramente il Liceo artistico ma i miei genitori, in specie mia madre, non condividevano le mie aspettative, nella sicura convinzione che il mestiere della pittura non garantiva un benessere sicuro, ma la mia determinazione era tassativa. Si volle così ascoltare il parere di un esperto, il padre di un compagno di scuola di mio fratello Pietro, che era appunto un pittore già affermato. Il maestro Viviani visti i miei lavori, confermò pienamente le mie capacità, consigliando senza dubbi gli studi artistici (segretamente confidavo sulla complicità di un collega pittore).
Con mia madre feci un compromesso-accordo con cui mi impegnavo, da subito, che una volta conseguito il diploma avrei perseguito la carriera dell’insegnamento.
A fine anni cinquanta l’accesso al Liceo Artistico di Brera avveniva tramite esame di ammissione con prove di disegno e pittura. Così lo stesso Viviani mi preparò a sostenere tali esami, seguendo anche le lezioni presso la Libera Accademia di Pittura, che lui fondò a Desio nel 1952 e trasferì poi a Nova Milanese. Nel frattempo seguivo anche la Scuola Superiore degli Artefici a Brera e nel giugno del 1959 sostenni gli esami di ammissione. Qui, alcuni dei disegni-studio, realizzati nella fase di preparazione all’esame di ammissione, che ho gelosamente conservato.
La dimostrazione che la mia scelta era quella giusta, fu confermata dal risultato di essere tra i soli 21 promossi a giugno su 120 iscritti. Dimostrazione che continuò costantemente, sia per dovere morale mio, ma anche per la gioia di fare ciò che più desideravo, nei quattro anni di Liceo mantenendo sempre la media del nove/dieci nelle votazioni per tutte le materie artistiche.
Gli anni di Liceo sono stati anni straordinari e di cui serbo un ricordo splendido, in particolare per tre elementi fondamentali. Primo: ovviamente facevo quello che mi piaceva con grande impegno ed entusiasmo; secondo: un incontro fantastico con i compagni di classe, grandissima e sincera amicizia, scambio reciproco di aiuti ed idee con profonda collaborazione, senza alcuna invidia, ma col desiderio di crescere e condurre esperienze di stimolo per tutti, sia in scuola che anche fuori; terzo: i docenti, che si sono rivelati di assoluta capacità tecnico artistica ma soprattutto attenti a farci crescere non solo sul piano delle materie artistiche ma anche come futuri artisti in cui il valore delle idee, della riflessione, del saper guardare e capire e dello studio e lettura erano continui, formando l’uomo che deve trovare in sé la forza di guardare al futuro e costruirsi, appunto.
Questo ci ha portato ad esperienze che andavano ben oltre il programma liceale. Col professore di figura Pajella, scultore, già all’inizio del terzo anno, avendo ampiamente superato con ottimi risultati lo studio delle statue e dei gessi, iniziammo, su sua proposta, a copiare la figura dal vero posando ognuno di noi a rotazione per i compagni, ma a metà anno decidemmo di far venire la modella (il Liceo la passava solamente al quarto anno) pagandola noi allievi, collettivamente. Con Benevelli, professore di plastica, al terzo e quarto anno attraverso calchi riproducevamo in gesso i nostri bassorilievi di creta, patinandoli poi ad imitazione dei vari materiali della scultura dal marmo al bronzo. Ma anche con la professoressa di lettere, Lucia Rossi, studiando i capolavori della letteratura iniziammo a produrre delle illustrazioni su quei testi. In particolare la Divina Commedia ci affascinò, tant’è che si prosegui per più anni, come se alla fine avessimo dovuto realizzare una mostra.
Parecchie volte al termine delle lezioni (l’orario del Liceo era dalle 8,30 alle 17,30 con pausa pranzo) andavamo a casa della professoressa ad approfondire l’analisi dei testi e delle nostre relative creazioni artistiche, uno stimolo erano anche, va confessato, gli ottimi biscotti che la mamma della Rossi, toscana, ci preparava.
Qui in mostra espongo tre di quei dipinti, prodotti sul testo di Dante, con le Anime Dannate, opere a cui sono fortemente legato. Purtroppo un dipinto della serie, di cui mi è solo rimasta la fotografia, è andato disperso. Selezionato per una mostra dell’INA-Touring Club che girò l’Italia, al termine non rientrò a Milano.
Un insieme di esperienze, quelle del Liceo, importanti e fondamentali per la mia formazione che, unite agli intensi rapporti umani, mi hanno permesso di costruire una solida base che mi ha dato grande sicurezza e solidità per il resto della vita.
Mantenendo la promessa fatta, appena conseguita la maturità sostenni gli esami di Stato, conseguendo l’Abilitazione all’insegnamento delle materie artistiche.
Nel 1964 a Legnano tenni la mia prima mostra personale al Club Artistico Le Muse.
La ricchezza delle esperienze espressive accumulate mi portò, quasi naturalmente ed istintivamente, al bisogno di concretizzare figurativamente un qualche cosa che andasse al di la della raffigurazione realistica e del legame strettissimo con la figura umana, soggetto principe di ogni mio dipinto. Così in un pomeriggio del 1965, lasciai che la mano corresse sulla tela con scioltezza creando delle forme che da un epicentro man mano andassero, forse, ad aprirsi verso un esterno. Qui indubbiamente contribuiva inconsciamente anche il mio stesso carattere, piuttosto introverso, taciturno, alquanto riservato. Ne sortì Materia, dove il colore stesso è indefinito, ma il senso di plasticità e volume è prevalente. Bisogno di evadere, di staccarsi dal reale, sì, ma rimane però un senso pieno e concreto della materia, appunto, tendente a chiudersi su se stessa e a inglobare. Dipinto anche questo a cui sono legatissimo e sempre esposto sulle pareti delle mie case o studi.
Il prosieguo degli studi era, ovviamente, l’Accademia di Belle Arti di Brera, con l’ incertezza, in quel momento, se scegliere Pittura o Scultura. Optai per la Pittura convinto dalle potenzialità espressive del colore, anche se devo riconoscere che nella mia pittura era prevalso nettamente sino ad allora il segno sul colore, ma l’istinto non si sbagliava, ci sarebbero voluti ancora cinque-sei anni per la vera conquista del colore.
Si trattava poi di scegliere il titolare della Cattedra i cui corsi frequentare. All’epoca c’erano Borra, Cantatore e Reggiani, andai a visitare le aule dei primi due e tanta fu la delusione: su tutti i cavalletti degli allievi c’erano dipinti uguali o simili a quelli dei maestri. Quando entrai da Reggiani ebbi immediatamente una sensazione di gran…confusione, ognuno faceva liberamente ciò che voleva, chi copiava la modella, chi componeva figure liberamente, chi dipingeva opere informali. Ecco: era il luogo giusto. Anche se il rapporto era più con l’Assistente Giovanni Repossi, Reggiani, uno degli importanti astrattisti degli anni trenta, mi fu prezioso nello studio delle forme in rapporto al colore sia nei suoi valori tonali sia timbrici, evidente nelle opere informali che espongo.
Intorno al 1969, chiusa l’esperienza prettamente formale tornai al figurativo, anche perché in una mostra personale che feci alla Galleria Fiori Oscuri nel 1967, pur avendo ricevuto molti complimenti, mi resi conto di come, pur nell’accettazione ormai consolidata dell’astratto, i visitatori mostravano perplessità e nello sforzo di capire e voler dare significati a tutti i costi, esprimevano idee che nulla avevano a che fare con le molto più semplici mie esigenze di carattere eminentemente formale. La mia sensazione era come se fosse presente una barriera tra le mie opere e quindi me e lo spettatore. In tal senso mi ricordo dell’episodio della visita del Maestro Viviani, che venne e, se ben contento e soddisfatto dal fatto che esponevo in una galleria di Brera, quasi a lato del Giamaica, che lui frequentava quasi quotidianamente, non entrò nella galleria rimase sull’uscio dove chiacchierammo, ma appunto non entrò, non condivideva la scelta dell’informale rispetto al figurativo. Mi resi poi conto che, ormai anche a me, interessava invece coinvolgere, attrarre nell’opera chi la guardava, offrendogli una nuova maniera di vedere e conoscere la realtà tramite la mia sensibilità e le conoscenze acquisite.
La nuova figurazione
Il mio interesse per la figura umana fu sempre decisamente prevalente e la voglia di provare nuove modalità di studiarla era forte. Così l’utilizzo di uno strumento diverso dalla matita o pennello, come quello di una macchina fotografica, fu quasi naturale, anche perché, con mio padre in casa c’era sempre stato un apparecchio fotografico, se non di più, ma recentemente (2021), ritrovando vecchi documenti, ho scoperto che nonno Pietro Mauri come suo primo lavoro fece il fotografo. Così, con un apparecchio ancora a soffietto iniziai a fotografare compagne ed amiche e siccome la stampa delle foto fatta dai laboratori non mi soddisfaceva ed era troppo cara per le mie tasche d’allora, decisi di imparare a stampare le foto autonomamente, iscrivendomi ad un corso per corrispondenza. Man mano che le mie capacità andavano migliorando il mio entusiasmo per questo strumento andava crescendo.
Nel frattempo frequentavo l’Accademia a Brera e dopo aver affittato uno studio in corso Garibaldi insieme ad altri tre compagni, mi trasferii poi a vivere in un appartamento dove già stava mio zio, scapolo, raggiunto poi da mio fratello.
Lavoravo in una ditta dove si rielaboravano e vendevano stampe e riproduzioni d’arte ed insieme all’amico Gianfranco, con i nostri dipinti ed altri, fatti appositamente per andare incontro ad un gusto più semplice, arredavamo le pareti di alcuni ristoranti. Oltre alla percentuale sulle vendite dei quadri avevamo diritto ad un pasto alla settimana, piccolo contributo, ma aiuto comunque alla mia precaria situazione.
Come detto prima, pittoricamente tornai alla figura reale, con soggetti semplici senza la ricerca di particolari stilizzazioni, sapevo che poi, pian piano, queste sarebbero comunque venute e sorte dal continuo lavoro.
Affrontai una Crocefissione (1970) che immaginai non sul Golgota, ma come se si svolgesse su un palcoscenico, misi ai piedi della croce una figura di donna accovacciata, la cui espressione perplessa ripresi in primo piano onde evidenziarla e la raffigurai nuda secondo la tradizionale rappresentazione iconografica della Verità. Inserii poi delle figure completamente avvolte da pesanti mantelli a simboleggiare l’indifferenza dell’umanità a ciò che stava accadendo. Esposi il dipinto a Nova Milanese nel 1980 in una mostra personale al Centro Sociale e la mattina dopo l’inaugurazione, al mio arrivo, trovai questo dipinto tolto dalla parete e girato verso il muro. Mi riferirono che era stato il parroco a compiere tale gesto, non avendone capito i valori iconografici, scandalizzato dalla presenza di un nudo sotto la croce. La voglia di smontare la mostra fu immediata, ma l’intervento di Viviani ed altri mi suggerì di lasciar perdere, il linguaggio dell’Arte non è da tutti, ma il dipinto rimase ovviamente esposto.
I soggetti dei miei quadri non sono mai stati allegri, anzi hanno sempre più rispecchiato un senso di solitudine, di introspezione, di quanto le difficoltà e i problemi siano prevalenti ed incombenti rispetto alla serenità. Ma questo non ha precluso che il colore conquistasse un ruolo sempre più prepotente nella mia pittura.
Pur nell’attenzione a riportare con precisione gli aspetti realistici dei soggetti raffigurati, l’esperienza informale mi ha sempre permesso di porre le singole figure, oggetti od elementi del paesaggio, secondo i principi dell’equilibrio formale di piani e forme subordinati poi al colore.
Dal 1970 si concretizzarono due nuove situazioni professionali. Mio padre mi chiese di comporgli una cartella con una selezione dei ritratti fotografici che avevo realizzato anche negli anni precedenti, perché intendeva sottoporla a dei suoi conoscenti e vecchi clienti, titolari di uno dei più rinomati studi fotografici di Milano, specializzato nel ritratto artistico, per avere un loro parere. Grande fu la nostra sorpresa alla loro richiesta di presentarmi immediatamente. Mi fu proposto di lavorare subito da loro ed ovviamente la mia risposta fu positiva, entusiasta di poter lavorare sempre sulle immagini ed iniziare una nuova avventura di tipo artistico. Nei primi mesi la loro assistenza fu costante per l’acquisizione da parte mia delle necessarie capacità e modalità professionali, mio grande vantaggio era che le mie capacità pittoriche diedero subito risultati eccellenti soprattutto per quanto riguardava il ritocco dei ritratti sia sui negativi che i positivi, che era una delle specifiche caratteristiche dello studio, ed anche la capacità di analisi dei soggetti ritratti e la conseguente modalità di illuminarli ed inquadrarli. Neanche un anno dopo mi fu affidato lo studio Testani & Lepri, con sede in piazzale Baracca, in gestione diretta. Dopo qualche anno rilevai personalmente lo studio, divenendone titolare.
L’altra opportunità venne dal Maestro Viviani che, per le mie specifiche qualifiche, mi chiamò ad assisterlo nell’insegnamento serale alla Libera Accademia di Pittura di Nova Milanese, dopo esperienze deludenti con altri pittori. Così nel gennaio 1970 intrapresi questo ulteriore impegno con altrettanto interesse, dandomi così l’opportunità di offrire, a giovani o meno, la ricca esperienza avuta con i miei docenti di Brera. Proprio grazie a questa, l’impostazione che diedi al mio insegnamento era quella di capire e seguire il singolo allievo sulla base delle sue caratteristiche e capacità personali, senza mai assolutamente mettermi in cattedra ed imporre le mie modalità stilistiche o idee. Ed era la differenza tra la mia didattica e quella di Viviani, che non condivideva, ad esempio, il fatto che io, da subito, amichevolmente, usassi il tu reciproco con l’allievo.
Ovviamente gli impegni professionali toglievano tempo alla mia pittura, ma seppur ridotta nella quantità, non mancava una costante rielaborazione. A volte i soggetti venivano da occasionali spunti giornalistici, come Preghiera (1974), o rivedendo soggetti precedenti come nel Cristo (1974) in cui ho volutamente tolto la croce in quanto assurta a simbolo religioso e mi sono concentrato sulla figura umana di Gesù, che nonostante la sua predicazione di amore rimane inascoltato e con coerenza subisce la morte.
Lo studio della figura rimaneva sempre costante in particolare nei disegni con la modella, potrebbe sembrare superflua la modella dopo che per anni si è studiata e conosciuta bene l’Anatomia, ma la presenza fisica suggerisce sempre sensazioni nuove e possibilità ulteriori se non altro, anche per lo studio delle luci ed ombre.
Ma anche il paesaggio riprendeva interesse per le possibilità di raffigurazione dello spazio. Mai sono uscito a dipingere dal vero dei paesaggi, ho solo guidato i miei allievi in tale esperienza, necessaria per ricondurre sulla tela le profondità e proporzioni prospettiche del vero. I miei paesaggi sono sempre frutto di invenzione, di una specifica esigenza di gioco di spazi, forme e colori in determinate situazioni di luce. Qualche volta è avvenuto l’inserimento di particolari reali, incontrati in gite o viaggi, ma solamente a memoria. Il bisogno di comporre è, in fondo, il riprendere il senso di libertà che mi offrivano i dipinti informali della seconda metà degli anni sessanta, con la voluta esigenza di mantenere una visione realistica e dare così un appiglio di sicurezza a chi guardava il dipinto.
Ma per capire meglio tutta la mia pittura, ma anche buona parte della pittura e scultura che costituiscono la Storia dell’Arte, va tenuto presente che l’elemento primario del vero pittore è il piacere, la gioia del dipingere, indipendentemente da qualsiasi soggetto. Il “pasticciare” con i colori, reinventandoli ogni volta, il depositarli sulla tela, l’inventare le composizioni o il modo stesso di condurre la pennellata sono la molla che spinge, che stimola la creatività, questo, naturalmente, per chi non è un semplice illustratore, e di questi ce ne sono tanti. Questo non solo è l’autentica verità della mia esperienza di pittore, ma è ciò che ho capito nel costante ed approfondito studio della Storia dell’Arte, che negli anni è diventato essenziale e bagaglio di sicurezza per la mia stessa pittura. L’urgenza dello studio è maturato sin dal primo anno di Liceo artistico, se non anche prima in forma istintiva. Questo piacere, in quegli anni, era del tutto particolare, perché come studenti di Brera avevamo accesso alla Pinacoteca gratuitamente ed io avevo preso l’abitudine di studiare anche altre materie, non solo la Storia dell’Arte, nella sala in cui era esposta la straordinaria prospettiva umana del Cristo del Mantegna con a fianco l’essenziale Pietà del Bellini. Sedendomi su un comodissimo divano ovale in velluto verde, posto proprio davanti a quei due capolavori, pur preso dalla lettura dei testi, ogni tanto alzavo lo sguardo, mi rilassavo nella loro contemplazione e ne assorbivo l’umore.
Mi concedo un’altra simpatica digressione, pur se puntualmente in argomento: con alcuni compagni e la complicità dei custodi della Pinacoteca, con cui eravamo ormai in confidenza, ci divertivamo disquisendo nella saletta in cui da una parte c’era lo Sposalizio di Raffaello e nella parete di fronte la Pala con Madonna e Santi e Federico da Montefeltro di Piero della Francesca. Il pubblico si concentrava quasi esclusivamente davanti al Raffaello e raramente si soffermava davanti a Piero, allora noi ad alta voce per farci ben sentire, lodavamo, giustamente, i valori formali, l’equilibrio delle sapienti geometrie, la simbologia dell’uovo appeso alla conchiglia absidale, l’assolutezza della luce pierfrancescana, mentre esprimevamo dubbi sulla leziosità dei gesti dei personaggi, sulla loro disposizione piatta senza profondità, sull’eccessiva delicatezza dei colori raffaelleschi. La conseguenza era lo sconcerto dei visitatori che difronte al nostro linguaggio preciso, tecnico e competente erano colti quantomeno dal dubbio, tant’è che spesso ci chiedevano ulteriori spiegazioni per capire meglio le differenze, con grande nostra soddisfazione.
La necessità di una lettura puntuale delle modalità con cui gli artisti costruiscono i loro capolavori si è sempre più confermata nello studio di questa materia e le mie capacità tecniche mi hanno sempre permesso una lettura molto puntuale dell’opera sul piano esecutivo per giungere successivamente alla comprensione delle iconografie e simbologie.
Questa modalità di studio mi ha accompagnato in modo sempre più coinvolgente, sino ad oggi e sicuramente sarà così sino all’ultimo mio momento. Il bisogno di capire è fondamentale se si vuole crescere e costruire un qualche cosa di significativo e l’Arte è , per me, l’esperienza più sublime che l’uomo possa condurre, è il vero autentico momento del riscatto che ci eleva dal mare magno dell’ignoranza, dell’egoismo, della cattiveria che ci circondano.
Studiare gli autentici artisti è un continuo colloquio con loro e con i loro ricchi pensieri ed esperienze: l’Arte è comunicazione appunto, oltre che insegnamento di bellezza ed armonia.
Per tutto questo, subito dopo qualche anno, alla Libera Accademia di Pittura di Nova Milanese ho introdotto la conoscenza della Storia dell’Arte, non tanto studiandola sui libri con un corso cronologico, ma più efficacemente con uscite a diretto contatto con le opere d’Arte nelle mostre, pinacoteche o città.
Sapere e conoscere le modalità tecnico-espressive con cui i grandi artisti hanno realizzato le loro opere dovrebbe servire ad ogni pittore a meglio concretizzare le sue immagini per una lettura più chiara ed efficace, senza copiarli ma rielaborandone i valori, a maggior ragione per degli allievi d’Arte figurativa.
Questa programmazione con “Pucci”(Giuseppe Paleari), il bibliotecario della Biblioteca Civica di Nova, permise di allargare la partecipazione del pubblico ed iniziare una intensa collaborazione con gli “Itinerari d’Arte” e “Arte si impara”. Tanto più che a Nova, come Accademia, alternate annualmente, organizzavamo le Rassegne Nazionali di Pittura Bice Bugatti (la compagna di Giovanni Segantini, nativa di Nova Milanese) a cui si aggiunse più avanti anche la scultura e quella della Rassegna del Disegno Giovanni Segantini. Un grande impegno organizzativo, ma anche ricco di vivace dibattito artistico e di incontri con notevoli personaggi, che pur in modi controversi permettevano continui ampliamenti delle conoscenze umane ed artistiche.
Non saprei dire con certezza, ma molto probabilmente la quantità degli impegni che costantemente affrontavo, mi portava nella pittura ad una esigenza di spazio, ad un bisogno di libertà, al non avere vincoli o limitazioni, senza un tempo incombente.
Pochi elementi compositivi ed un colore che diventava determinante. Quasi un senso di immersione in un mio ambiente riservato, un rivivere la totale sensazione straniante delle immersioni subacquee, una mia importante consuetudine fisico-sportiva praticata dal 1966 col carissimo amico Roberto.
Pur nella volontà di rimanere nell’ambito dell’immagine reale era soprattutto con l’uso di un colore libero e di un senso di luce assoluto che inventavo i miei paesaggi, dove la pennellata va conquistando man mano una maggiore evidenza, diventa una trama strutturale, non nascosta, che va a creare un ritmo indipendente all’interno di ogni piano. Piccoli e semplici reperti architettonici e alberi le sole presenze attive: Un cielo rosso (1979).
Ma il bisogno di rielaborare la figura ritorna, chiede sempre nuovamente il suo essere presente, diventare significato e significante, come suol dirsi.
È come concretizzare i propri liberi pensieri, le riflessioni e, perché no, anche i sogni o desideri. Diversamente dagli anni giovanili in cui una realtà triste e angosciosa aveva in me il sopravvento ed i soggetti dei dipinti rispecchiavano puntualmente il mio stato d’animo, il mio grande scetticismo nei confronti dell’uomo (che non è venuto meno anzi è costantemente cresciuto), ora con maggior coscienza e controllo sulle mie passioni, sceglievo determinati modi e situazioni per concretizzare, attraverso la pittura, il mio mondo dove respirare a pieni polmoni, senza limiti spaziali e temporali come ne I due campi azzurri (1980). Ecco che Figura e luce (1980) costituisce una presenza fisica in uno spazio libero, ma con equilibri geometrici costanti (il Rinascimento non viene mai meno) e dove il volto scuro è esigenza pittorica di contrasto, ma anche volontà di oscurare le negatività interiori, tant’è che l’ombra è invece luminosa e colorata.
L’Arlecchina (1985) non indossa il costume, la sua stessa pelle è abito, diventa una unica presenza, un’idea, un pensiero, suggerito anche dal senso di incertezza del passo che compie la figura che inoltre non proietta ombra, sarebbe altrimenti una possibile realtà concreta.
Pensieri notturni (1985) le riflessioni, le fantasie che solitamente prima di addormentarci si succedono, si avvicendano in noi, raccolti in noi stessi, però, in una posizione di difesa che ci riporta a quella fetale nel sicuro ventre materno.
Ma avventure od accadimenti reali riprendono forma sulla tela ribaltando le situazioni: A Venezia (1986), il paesaggio non è più illusivo ma diviene l’autentica realistica raffigurazione del contesto in cui l’incontro assume invece forme allusive, ritornano le ormai consolidate forme astratte che suggeriscono una situazione, evitandone una concretizzazione narrativa o naturalistica.
Ritorna un tema più volte affrontato: la crocefissione, in Golgota (1986) il soggetto è distante, è un avvenimento che si svolge in un’ampia geografia e con i soli tre protagonisti della condanna, la cui diversa umanità è descritta nella differenza dei colori.
Dal 1987, si manifestava una voglia di rendere sempre più evidente nel quadro il fare pittura (la gioia del dipingere), l’importanza del gesto, del tocco, della pennellata, a ciò si accompagnava una riflessione o più ancora un dubbio. Pur avendo acquisito una sicura esperienza e capacità tecnica tramite le quali concretizzavo visivamente una situazione, un vissuto interiore, non riuscivo ancora a spiegarmi ed a definire esattamente, attraverso quali meccanismi mentali ed emotivi si determinava l’immagine pittorica nei miei dipinti. Una precisa idea di quanto volevo creare c’era, ma al contatto con la tela ed i colori il progetto iniziale subiva delle variazioni a seguito della tensione emotiva che si determinava negli attimi creativi che andavano susseguendosi. Mantenendo, in linea di massima, la composizione iniziale, man mano che procedevo ogni pennellata e colore era conseguenza di quelle precedenti e così, come in un crescendo musicale, sino all’ultimo tocco conclusivo. Di conseguenza il quadro era compiuto sempre nella stessa giornata, piccolo o grande che fosse. Sussisteva una razionalizzazione tecnica sulla scelta della successione o variazione dei colori o del senso della pennellata, nel rispetto delle variazioni tonali e di luce o compositive, ma era il quadro nel suo farsi che mi suggeriva la sua stessa evoluzione. Quindi era determinante, al fine creativo, anche l’azione stessa del dipingere. Le domande che mi ponevo, sulla mia pittura, erano: è dunque, l’opera pittorica un fatto puramente emotivo? L’attimo ed il gesto della pennellata mi erano determinanti? La figurazione nasceva come una conseguenza autodeterminantesi ed era imprevedibile? È l’idea che determinava il risultato pittorico o era invece il processo pittorico nella sua spontanea evoluzione che andava poi a definire l’idea?
Il dipinto diveniva quindi come uno specchio in cui ci si rifletteva scoprendo una nostra immagine che non era mai uguale, ma in costante minima variazione. Negli anni successivi continuava la necessità ed il piacere di lasciare sempre evidente la pennellata, componendo i paesaggi con un sempre più accentuato bisogno di spazio, e rinnovando le mie tradizionali forme astratte.
Nel 1992 ripresi in mano un libro letto tempo prima, “Il gabbiano Jonathan Livingston” di Richard Bach che mi diede un ulteriore stimolo a staccarmi dalla…terra. Alcune frasi ricorrevano nella mia testa mentre dipingevo sollecitandomi particolarmente: “..Ciascuno di noi è in verità, un’immagine del Grande Gabbiano, un’infinita idea di Libertà, senza limiti…e il volo di precisione è un passo avanti verso l’espressione della nostra più vera natura. Noi dobbiamo scavalcare tutto ciò che ci limita…Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda col tuo intelletto e scopri quello che conosci già, allora imparerai come si vola”
Il Bisogno di volare e Il volo azzurro della mente (1992) sono i dipinti di quel periodo che ancora oggi mi fanno rivivere la gioia, quasi fisica, di averli dipinti. Ma evitai, proprio sull’onda di quel piacere, di compiacermi troppo di quella pittura, cercando di evitare il grave rischio di ripetermi e diventare epigono di me stesso.
Nel 1993 per alcune situazioni personali, ma anche per quelle della nostra realtà, tralasciai la sicurezza della pittura ad olio per affrontare una nuova espressività, seguendo più l’istinto ed una necessità di cambiamento che non i risultati ormai sicuri, determinati dalla capacità tecnica e quindi appaganti sul piano estetico.
Realizzai, così, una serie di studi ricercando suggerimenti nei pensieri liberi, accostando ricordi, realizzando immagini in cui volutamente non c’era un risultato naturalistico. Inserii figure ed oggetti in una composizione limitata negli spazi, al contrario di quanto fatto sino ad allora. Piani con un valore assoluto di colore, senza intermediazioni tonali, che nel loro accostarsi o contrapporsi concentrassero l’evidenza dell’immagine. Rappresentando un ambiente più chiuso in cui le possibili direzioni di movimento sono poche, mi costrinsi con più perentorietà alla formulazione di una possibile scelta o indirizzo di pensiero. Intesi comunque realizzare queste opere con un valore e senso definiti, pur se avevo la sensazione che avrebbero potuto essere un momento particolare di transizione. In alcuni lavori l’inserimento limitato di paesaggi non cercò di ampliare gli orizzonti, ma diveniva una ulteriore realtà da affrontare. Un apporto di nuove problematiche quindi, su cui riflettere e che pittoricamente non potevano essere risolte con la consueta ricerca di profondità. La generale uniformità di colore creata, pur con lievi variazioni, assunse l’aspetto di una barriera esterna e non di uno spazio in cui muoversi liberamente. Una sensazione più di difesa e il desiderio di voler isolare ciò che costituiva una problematica, un’ incognita.
Quella sensazione di sicurezza del mondo che mi ero creato pittoricamente, probabilmente non corrispondeva più alle esigenze nuove, con la pittura volevo affrontare e capire nuovi contesti, esorcizzare certi accadimenti, dominare e riconquistare nuove sicurezze. Evidentemente in quel momento l’Arte mi era congeniale come mezzo di analisi, di studio, di conoscenza con cui raggiungere una nuova dimensione interiore, conducendo, appunto, nuove esperienze espressive.
Queste opere costituirono un punto nevralgico di passaggio, in un periodo alquanto difficile della mia vita, ma anche materia di una mostra personale a Milano. Al di là dei lusinghieri giudizi, l’osservare le mie opere nel contesto esterno di una galleria, al di fuori dello studio o di casa in cui sono parte di tutto un insieme intimo, mi portò alla necessità di una profonda riflessione, del valutare quali strade mi si aprivano sul piano della mia Arte e contestualmente ormai l’improrogabile scelta su altri aspetti concreti della mia vita nel tentativo di risolvere pesanti situazioni. La pittura rimase in sospeso per qualche anno. Nel frattempo chiusi definitivamente e risolsi un matrimonio, una società, col tocco finale dell’abbandono di Milano e il trasferimento a Cesano Maderno. Contributo assolutamente determinante a questo ribaltamento della mia vita la presenza di Marina, nuova splendida e straordinaria compagna.
A parte la mia produzione pittorica, tutti gli altri miei impegni culturali, artistici e di insegnamento sono sempre proseguiti tranquillamente, anzi andavano incrementandosi, dandomi sempre e comunque ampia soddisfazione. Questi risultati mi facevano sentire meno la voglia, il bisogno di dipingere concretizzando cioè una possibilità creativa nel modo di far conoscere, approfondire ed amare l’Arte da parte di chi seguiva la mia proposta educativa e culturale.
Potremmo dire un insieme di atti quali possibili surrogati del dipingere. Contestualmente mi rendevo conto che se decidevo di riprendere in mano il pennello le esigenze che questo avrebbe comportato erano tali da richiedere un impegno totale, a 360 gradi, cioè i risultati artistici che mi sarei prefisso richiedevano una esclusiva concentrazione sul dipingere, con la conseguente necessità di abbandonare tutte le mie altre attività ed impegni. L’Arte, se la pratichi professionalmente, e solo in tal senso andrebbe la mia scelta, non concede distrazioni, non può essere fatta ad orario, perché obbliga a una dedizione totale, coinvolgente mentalmente, spiritualmente, fisicamente. Io, per come mi sono costruito e per quello che voglio fare, con le mie assolute esigenze di qualità, non potrei fare altrimenti, oggi come oggi.
Ecco, dunque, che la pittura al momento rimane latente al mio fianco, pronta, nel momento in cui dovessi decidere di riprenderla a ghermirmi totalmente costringendomi alla rinuncia di tutto quanto sto realizzando adesso nell’ambito della cultura artistica. Vedremo, non si sa mai!
Rassegna critica
1964: “ Dado Mauri non ha ancora vent’anni, la sua è pittura d’istinto, una decisa forma di evasione, forse di ribellione di un giovanissimo pensoso e taciturno.
In queste sue opere il pittore ci rende note le sue sensazioni di fronte alle cose ed agli altri aspetti della natura, sfondi terrosi, impasti argillosi, tanto da farci pensare che in lui si nasconda una vocazione segreta per la scultura, formano per così dire la sigla di questa pittura.
Dado trova gli spunti di questa sua terrosa pittura in ambienti squallidi come nel quadro “Povertà” o terrificanti come una bolgia dantesca.
Le sue figure hanno però una costruzione decisa ed una dignitosa somatica pur nel tormento delle situazioni in cui sono colte. Un nudo di donna statico, quasi statuario più fatto di argilla rossa che di carne viva, conferma la fedeltà del pittore a quella sua materia rude e “grattata” che, per lui, è il tessuto del quadro.
In genere i giovani sono ecclettici, si muovono tra reminiscenze varie in tutte le direzioni e mancano, spesso, persino del senso “materiale” della pittura. Dado condensa invece il suo mondo in un particolare “grafito” che dà un po’ ai suoi quadri il tono di affreschi. Merita quindi attenzione per questo suo personale e deciso indirizzo che lo rende riconoscibile a prima vista, nel mare magno dell’odierna pittura giovanile. Le sue opere mostrano indubbiamente uno stile e questo per un pittore della sua età non è affatto poco ed è più che una promessa. G. P. CONTI
1967 : Sulla pittura informale – “Nella pittura di Mauri osserviamo una linea di sviluppo metodica. Il frammento naturale delle prime composizioni è un pretesto, una ipotesi formale, da verificare e rielaborare attraverso un processo raziocinante; è sostanzialmente un metodo intuitivo che ricerca nella forma naturale la purezza emblematica del simbolo. Ma è un simbolo formale nel senso stretto della parola, è scevro da significati metafisici; la sua vera ragione d’essere è quella di divenire modulo compositivo, un’unità ritmica normativa di uno spazio significante. Ed è qui che si recupera nella pittura di Mauri il significato di una problematica: ritmo ed armonia sono i principi vitali dell’esistenza, sono forse, il fine ultimo dell’ arte. Ma mentre l’armonia, che rappresenta una soluzione sublime dell’essere, non può sussistere senza ritmo, il ritmo può esistere senza armonia. È questo il significato delle sue ultime composizioni: il ritmo spezzandosi crea il frammento, lo spezzarsi delle simmetrie rende convulsa l’immagine; è un ritmo psicologico che enuclea un frammento spazio-temporale dell’esistenza. Ecco dunque che il metodo non si risolve nella pittura di Mauri soltanto come verifica di ipotesi formali, ma si realizza nel dramma più sottilmente angoscioso dell’essere raziocinante. Mauri arriva al dramma espressivo attraverso l’accostamento di forme pure, incontaminate dalla realtà.
E se è vero, secondo un noto aforisma, che l’occhio è la finestra dell’intelligenza, allora l’arte è un immenso portale aperto sull’umanità perché in essa l’uomo cerchi con l’astrazione la risposta ai più pressanti interrogativi della nostra esistenza”. CARLO FORCOLINI
1975: “Conosco Corrado da molti anni: ho avuto modo di seguire l’evoluzione della sua pittura e posso dire che essa ha sempre riflesso momenti e situazioni intensamente vari e vissuti. Una pittura, quindi, onesta e leale come lo è profondamente l’artista e l’uomo.
È una pittura la sua ricca di contenuti, di simbologie e di allusioni, ma soprattutto lontana da ogni ricerca volta ad ottenere una facile e superficiale piacevolezza.
La tematica della pittura di Mauri è il senso della solitudine, quella che in fondo ognuno di noi prova pur vivendo in luoghi sovrappopolati come le città, una solitudine che si accompagna ad un intimo bisogno d’amore.
Esplicativa di ciò è la sua prima produzione, espressa in questa mostra dalla serie dei dipinti della “Divina Commedia”.
Il secondo periodo dell’artista è, a mio giudizio, particolarmente significativo; egli infatti si libera dell’aspetto “formale e realistico” anche per il contatto con Mauro Reggiani, suo maestro all’Accademia di Brera e compone dipinti con forme primarie estremamente semplici e naturali che si attraggono vicendevolmente in uno slancio d’amore.
Semplicità non solo formale, ma che accompagna l’avventura pittorica dell’artista anche nella scelta della sua nuova tematica figurativa. Infatti la ricerca degli aspetti più semplici, poveri e quotidiani della vita, lo ha sempre attratto: è così che egli rappresenta la donna che prega o che chiede l’elemosina, le cui calde e terrose tonalità dominanti, sono volutamente ricercate per dare risalto all’intensa umanità espressa. Questa tematica la ritroviamo anche in composizioni più complesse e meditate, in cui le figure e i paesaggi si avvolgono in uno spazio astratto e senza tempo”.
GIANFRANCO CAPRARO
1975: “…La scoperta è Corrado Mauri. Conosco Corrado da tempo: eppure, in alcuni anni, non sono riuscito che a vedere un solo lavoro, quella suggestiva Preghiera, presente anche in questa mostra. Mauri suscitava una comprensibile curiosità: docente di Pittura e Storia dell’Arte, pittore, critico, fotografo d’Arte, Direttore della Libera Accademia di Pittura. Un giovane che seguendo il naturale impulso dettato da una straordinaria emotività e sensibilità di carattere è riuscito a “costruirsi” una attività artistica totale… L’impegno e l’evoluzione di Mauri sono evidenti: dai primi lavori impostati sui temi umani profondamente sentiti (la Maternità, la Carità, la già citata Preghiera) e su spunti profondamente drammatici a scorci totalmente privi di vita, riecheggianti il tema della solitudine e insieme l’osservazione, la meditazione diremmo, proprie di un profondo, quasi religioso attaccamento alla natura esaltata e vivificata da un uso dei colori decisi ed estremamente equilibrati. Una pittura suggestiva, che Mauri certamente non va ricercando, ma che ottiene naturalmente, per via di una innata sensibilità e di una tecnica sorretta e disciplinata da una non comune cultura”
CARLO SOLARO
1980: “…Qui il ritorno a “..forme primarie estremamente semplici e naturali..” era coinciso sul piano formale con il ritorno ad una pittura nuovamente tesa a privilegiare l’aspetto comunicativo su quello espressivo – come necessariamente accade ogni volta che un “IO” artista si trovi interamente concentrato su un “TU” oggetto del suo amore. Ma il discorso neppure a questo punto poteva dirsi concluso di fronte alla nuova evidenza della solitudine dell’uomo, vista come risultato della sua difficoltà di entrare in rapporto sia coi suoi simili sia, forse, con lo stesso ambiente naturale (si vedano, ad esempio, le tele successive al ‘70 con le figure umane isolate, a volte quasi fisicamente ripiegate in un più disperato sforzo di profonda introspezione; ma si osservino anche le tele con piccoli gruppi di figure umane incapaci di guardarsi reciprocamente in volto).
Non si potrebbe tuttavia pensare ad un compianto della solitudine umana più intensa di quello dipinto su questi ultimi quadri, dove la presenza dell’uomo può solamente venir implicitamente evocata o da infinitesime strutture architettoniche oppure dalla struttura figurativa, a noi familiare, di questi alberi, un tempo usati da Mauri come sfondo di importanti studi sul corpo umano.
Per il resto nessun altro elemento potrebbe rievocare qui la figura umana, mentre la natura appare quasi per contrasto ”esaltata e vivificata” attraverso una resa dei colori ”decisa ed equilibrata ad un tempo” capace di scandire spazi assoluti e tersi ed assolutamente impensabile senza la precedente esperienza informale degli anni 1965-68. Ad essa si rifanno, del resto, gli stessi giochi di forme sempre più sintetiche dove i colori ad olio, giustapposti con netto stacco lungo le linee di incontro dei piani, conferiscono quasi uno spessore stereometrico alle superfici rappresentate; in tal modo queste ultime, anche se non appaiono sempre in sintonia con la nostra percezione cromatica del reale, giungono egualmente ad evocare un’impressione di corporeità, concretezza ed aderenza al vero infinitamente superiore alle evocazioni dateci da quelle pur “credibilissime” linee di contorno degli oggetti – qui rese fondamentalmente attraverso la netta opposizione di colori differenziati – nelle quali siamo già solitamente pronti a riconoscere una fedele immagine delle nostre percezioni visive..”
ANDREA BENAGLIA
1985: “In una mia recente visita a Milano, ho avuto l’occasione e la fortuna di osservare Corrado mentre dipingeva nel suo studio. Cosi mi sono reso conto che vedere l’esecuzione tecnica ed il modo di dipingere sono di grande ausilio ai fini della comprensione dell’opera stessa. Corrado procede con estremo rigore e puntuale metodologia, dopo aver abbozzato un disegno di massima col pennello sulla tela, preparata con un fondo molto scuro. Quello che più mi ha colpito è la sua rapidità d’esecuzione: la stesura del colore avviene a rapidi colpi di pennello successivi, senza mai sovrapporre una pennellata sull’altra, ma in susseguente accostamento. Ad ogni tono una breve riflessione per la scelta di quello successivo e con una preparazione molto accurata del colore sulla tavolozza. Procedendo rapidamente, in poche ore anche una tela di grandi dimensioni è terminata. È ovvio che questo modo di procedere, che non permette di sbagliare, non potendo riprendere o sovrapporre le pennellate, necessita di una notevole sicurezza. Perché mi sono soffermato sulla descrizione del come dipinge Corrado? Proprio perché ciò è sintomatico per una maggiore comprensione della sua tematica.
Come è immediata la sua tecnica pittorica così è anche la lettura della tematica dei suoi dipinti, che non vogliono assolutamente nascondere significati particolari o reconditi. Del resto in tutta la sua produzione precedente non vi sono mai state difficoltà di comprensione (anche per il periodo informale), ma si percepiva chiaramente il semplice messaggio di Corrado: valorizzare e sottolineare i vari aspetti della figura umana nonché rappresentare dei paesaggi assoluti, come quelli di questi ultimi anni, in cui il tempo è come fermo e dove la luce staglia con precisione i singoli spazi, che si organizzano in un rigoroso e dialettico rapporto.
Quest’anno Corrado è tornato a proporci la sua grande e primaria passione: la figura, che appunto ultimamente aveva tralasciato per approfondire lo studio dei suoi paesaggi. Decisamente Corrado persegue l’obbiettivo di organizzare gli spazi attraverso accostamenti di colori tonali in cui inserisce dei valori di colore timbrico, ma sempre in reciproco supporto o bilanciamento. L’inserimento della figura ci dà un certo senso di dinamismo, che non è dato dal tipo di posa che essa assume, ma ci viene suggerito dalle linee di contorno o dal gioco del chiaroscuro. Lo spazio viene quindi dominato e subordinato dalle esigenze espressive di Corrado, mentre la sua figura umana è sempre imprevedibile e offre una continua possibilità di rappresentazione. Senz’altro Corrado tralascia di proposito una facile sintesi compositiva anche sulla figura, proprio perché ricerca una continua emozione nel dipingere, al di là di facili schematizzazioni. Così come nella realtà la donna è una infinita serie di emozioni, Corrado ne suggerisce altrettante per mezzo di una rappresentazione estetica. Oltre a questa godibilità estetica, nei suoi dipinti dobbiamo riscontrare un ampio senso dello spazio in cui l’equilibrio è lo scopo primario attraverso il quale dobbiamo recuperare un senso di pausa sospesa in cui riflettere e, nell’ampia atmosfera, ritrovare noi stessi. Questa esigenza nasce interiormente in Corrado perché conduce una vita molto intensa sia culturalmente, sia professionalmente; ogni suo dipinto è un attimo di pausa e di riflessione necessaria, prima per lui stesso, ma soprattutto offerto a noi tutti, che ne abbiamo un estremo bisogno.
EMILIO CARSANA