Corrado Mauri
La rivelazione della straordinarietà dell’Altare di Isenheim, un Polittico a più pannelli, avvenne per me nel febbraio del 2005, in occasione di un viaggio in Germania ospite, con Marina, della carissima amica Gerarda a Bad Grozingen, dove viveva sua madre. Il giorno successivo al nostro arrivo Gerarda ci portò a Colmar al Museo d’Unterlinden per visitare questo capolavoro. Dire che fu una “botta d’emozione” è dire veramente poco, un turbine di vari stati d’animo si susseguirono senza tregua per tutto il tempo della visita, dopo e sempre. Personalmente ho un controllo emotivo alquanto spiccato, che però si accantona in certe occasioni come difronte agli affreschi con le Storie della Croce di Piero della Francesca in S. Francesco ad Arezzo, nella Cappella Sistina o alla “Giuditta e Oloferne” del Caravaggio, giusto per fare qualche esempio. Ovviamente da tempo conoscevo ed avevo letto su questo artista, ma l’impatto con l’opera è stato fulminante e determinante, tant’è che la riproduzione con le ante apribili che acquistai nell’occasione, è sempre rimasta esposta nelle mie librerie, unica, nessun’altra riproduzione ho mai tenuto in vista e tantomeno per una possibile motivazione religiosa, in quanto sono non credente.
Dalle tre immagini e relativi titoli risulta evidente la complessità di questo Polittico di cui, purtroppo, siamo praticamente privi di documentazione storica, ma l’enorme problema è che altrettanto accade per il suo autore. Il suo stesso nome si ottiene per deduzione. Tanto è straordinaria questa complessa opera, altrettanto difficoltosa la sua vera ed autentica comprensione, ancora oggi. Non è mia intenzione fare la storia del continuo dibattito, ormai secolare, tra le varie categorie che si sono occupate e si occupano del Polittico, storici, storici dell’Arte, religiosi, teologi ecc.., ma compiere una lettura prettamente pittorica. È uno storico dell’Arte del seicento olandese, Joachim von Sandrart che nel suo scritto Teutsche Academie (L’Accademia tedesca delle nobili arti dell’architettura, della scultura e della pittura, pubblicato nel 1675 e 1680, in cui tratta le biografie di artisti olandesi e tedeschi) il primo che raccoglie notizie sul Grünewald, con scarsi risultati e tentando di rintracciare e vedere più opere possibili.
Nel secondo ottocento le ricerche e gli studi si moltiplicano, col novecento la sua figura assume, giustamente, rilevanza notevole, ai vertici dell’Arte Tedesca, non più come imitatore o seguace, ma come rivale del Durer, anche se permangono più le ipotesi che i dati di fatto concreti. Le pochissime citazioni che portano e fanno pensare a lui hanno ben quattro nomi diversi: Matthias Grünewald, Meister Mathis, Mathis Gothart Nithart e Mathis Grün. Mettendo insieme le notizie relative ai nominativi non è possibile ricostruire una sequenza storica della vita dell’artista, di un apprendistato presso un qualche maestro, di una sua possibile bottega o allievo, ma in particolare nessuna commissione documentata. Qui sopra un disegno attribuitogli con buona approssimazione e che si ritiene un autoritratto, tiene in mano una specie di penna e guarda in alto come in cerca di ispirazione. La fisionomia è ben marcata: occhi chiari, volto quadrato di un uomo nel pieno della maturità. Purtroppo il disegno presenta gravi alterazioni e ripassature come le scritte ed il monogramma MG, Mathias Grünewald, aggiunto successivamente. Incerto il suo luogo di nascita, forse Wurzburg o Aschaffenburg in Baviera, mentre per la data si va per deduzione sulla base delle prime opere, dovrebbe aggirarsi intorno al 1475-80. L’artista all’attività di pittore affianca quella di ingegnere idraulico, realizzando la fontana del Castello di Bingen nel 1510 su ordine del Capitolo di Magonza. Dal 1511 risulta pittore di corte e consigliere artistico dell’Umanista Uriel von Gemmingen, Arcivescovo di Magonza, per il quale progetta ed esegue un camino monumentale nel Castello di Aschaffemburg. Dal 1514 lavora per il successore dell’Arcivescovo Gemmingen, il cardinale Alberto di Brandeburgo (nel 1516 c’è una richiesta di salario come Magister Mathis Gothart pictoris) per cui rimane in carica sino al 1526 quando si interrompono improvvisamente i pagamenti, si suppone a causa delle lotte contadine e di sue simpatie per la dottrina luterana. Tra le pochissime certezze c’è una testimonianza di tre Consiglieri di Francoforte che ne annunciano la morte nel 1528. Nell’inventario dei suoi beni oltre ad utensili vari c’era una cassetta “saldamente inchiodata” che conteneva un testo del Nuovo Testamento, 27 prediche di Lutero rilegate, altre carte luterane, 12 articoli della fede cristiana con richieste dei contadini in rivolta, libri di conto di una miniera, delle patenti di nobiltà e anelli d’oro. Inoltre possedeva un guardaroba sfarzoso ed erano presenti, nei locali, due sportelli d’Altare, uno solamente disegnato. Per quanto riguarda la sua famiglia risulta avesse un figlio adottivo, Endres Nithart (figlio adottivo di Grü), e che fosse sposato, ma pare non molto felicemente. Tra le tante ipotesi fatte, quella che la moglie fosse una sua modella, magari rimasta immortalata in qualche suo disegno. Cominciamo perciò proprio da alcuni di essi che ritraggono delle donne e per iniziare a prendere confidenza con il suo stile.
Immediata la constatazione che siamo difronte a copie dal vero di donne popolane. Una congiunge le mani in preghiera esprimendo nel volto una dolce concentrazione. Tra l’altro è forse l’unico disegno che ha una firma autentica sul lato sinistro del foglio al centro a matita (“[M]athis”) e altre scritte non autografe. L’altra con un turbante, anche lei colta in un fuggevole momento espressivo quasi sorridente. La qualità dei disegni è notevole: un segno sicuro e determinato, privo di qualsiasi titubanza, ma eccezionalmente sensibile alla luce, un segno decisamente pittorico, che passa da una linea sottilissima, presente anche sopra alla morbida sfumatura nel volto della donna che prega, ad una linea netta e forte che determina l’ombra e l’andamento delle pieghe, ma che scompare sottilmente nei punti di luce. Identica modalità anche negli altri due splendidi disegni, il secondo sul retro dello stesso foglio, chiari studi per qualche figura forse religiosa, probabilmente una Maddalena.
Una figura pensosa, come in meditazione, gli occhi che guardano nel vuoto, in alto, spinta da un turbamento che si concretizza nelle mani strette in cerca di un qualcosa di certo e di consolante. Mani che sono di un realismo assoluto, che lavorano, che pensano. Sul retro la stessa donna si trasforma, ecco che l’artista, studiata ed assorbita la realtà, ora rielabora, accentua, trasforma, scioglie i capelli, compaiono delle lacrime, le labbra si piegano lievemente in basso e l’espressione diventa più patetica, ma sono le mani che cambiano completamente, non più la contadina, ma quasi da…musicista, dalle dita affusolate che si intrecciano senza forza, la tensione si sta scaricando, dietro le mani c’è il vuoto, uno scuro che assottiglia le dita e va oltre. Ecco quando alla notevole capacità tecnica si accompagna l’idea: il percorso della creatività va libero alla sua meta, cercando e incontrando. Come datazione dovremmo essere intorno agli stessi anni dell’Altare di Isenheim, 1512- 16, quindi indubbiamente si tratta di studi relativi a quest’opera. Anche in un altro splendido disegno, tutto questo si fa ancora più evidente: i lunghi capelli sono sciolti e variano sapientemente con la luce, con quelle singole ciocche sottili e lunghe, che giocano anche con le ombre e smorzano, nella loro verticalità, la rotondità del volto. Questo studio, molto attento e puntuale, è in funzione della figura della Madonna, che viene sostenuta da S. Giovanni nella Crocefissione. Stessa inclinazione del volto che esprime contrizione e dolore, praticamente identiche le mani, che si stringono forte e non unite come per la preghiera, sono mani di dolore, chiuse in sé. Un’altra sua particolarità che riscontriamo in questi disegni è nelle braccia, nei continui cerchi delle strette pieghe della stoffa che si concentrano e variano in continuazione verso il basso o l’alto, una caratterizzazione personale, cioè lo sviluppare costantemente un motivo che piace. In tutti questi disegni le notevoli modalità esecutive sono praticamente identiche a confermarne, quindi, la stessa autografia. Il Nostro si serve della stessa modella, come si evidenzia nelle chiare affinità fisionomiche riscontrabili nelle donne di questi disegni. Pensare che sia la moglie viene alquanto naturale, ma rimaniamo sempre nel campo delle ipotesi.
Analizziamo ora le pitture dell’Altare, ma vediamo prima chi sono i committenti (gli Antoniani) ed il luogo per cui viene eseguito. L’Ordine degli Antoniani nasce in Francia nel 1095 a S. Antoine en Dauphinois come confraternita laica, la cui vocazione principale è la medicina e fonda un ospedale con l’aiuto di medici e chirurghi, anche estranei alla stesa confraternita con l’approvazione di papa Urbano II. Curano l’epilessia, la sifilide, ma in particolare il “fuoco sacro”, malattia legata strettamente a S. Antonio Abate tanto da assumere correntemente il nome di “fuoco o male di S. Antonio”, espressione sempre respinta dagli Antoniani. Il “fuoco infernale”, l’erpes zoster o ergotismo canceroso o convulsivo, è una malattia provocata da un fungo della segale cornuta, della quale in quei secoli si faceva grande uso, e l’Europa centrale era funestata da frequenti epidemie. Questo male si manifesta con la sensazione di bruciore nel corpo e di freddo nelle estremità. I piedi e le mani toccati dalla cancrena, marciscono e si distaccano dal corpo. Al di là delle invocazioni a S. Antonio Abate quale santo protettore, tra i medicamenti usati figura un balsamo, di cui si è persa la ricetta precisa, composto da erbe officinali, da grasso di maiale, animale fedele al santo, come emolliente, e da vinsanto esposto alle ossa del santo per acquisire potere miracoloso. Gli Antoniani sono stati i medici dei papi, tant’è che nel 1218 papa Onorio III riconferma con bolla la prima approvazione e nel 1297 una bolla di Bonifacio VIII erige la Confraternita in Ordine canonico, sottomesso alla regola di S. Agostino ed i priorati con ospedali si uniscono in Abbazie. L’afflusso dei pellegrini e degli ammalati, attirati anche dai successi medici, necessitano di mezzi finanziari importanti, dal XII sec. le collette per i “Messaggeri di S. Antonio” diventano sistematiche, come l’offerta di maiali al Santo, un’altra fonte importante di reddito, sancita addirittura con una bolla papale.
Tra i numerosi conventi la Chiesa Prioria di Isenheim era la Casa Madre, fondata nel XIII sec., e aveva alle sue dipendenze gli ospedali di Basilea, di Strasburgo e di altre località tedesche. Benché il Convento facesse parte del Sacro Impero Germanico, i precettori, spesso uomini di grande reputazione, erano francesi come Jean Bertonneau, consigliere del re di Francia e dei duchi di Borgogna, Jean Orlier, d’origine savoiarda, che dopo essere stato Precettore a Ferrara sino al 1460, lo diventa ad Isenheim sino al 1490. Questi fece eseguire opere molto importanti tra cui una Pala d’altare dipinta da Martin Schongauer nel 1473, per la chiesa di S. Martino a Colmar, tutt’ora presente, con la “Madonna nel roseto” che presenta chiari stilemi fiamminghi. Interessante la cornice policroma e scolpita con angeli musicanti e racemi tipicamente gotici. La presenza della scultura ci porta al fatto che lo stesso Orlier è il primo committente delle parti scultoree del nostro Polittico e praticamente ne è il possibile ideatore. Quindi esse sono anche le prime ad essere progettate ed eseguite e costituiscono la parte ultima delle due aperture del Polittico, di cui rimarcano anche la dedicazione precisa a S. Antonio Abate ed Eremita. Il successore di Orlier, l’Abate Guy Guers, che rimane in carica sino al 1516, prosegue l’opera di abbellimento dell’Abbazia, revisiona il progetto delle sculture del Polittico e lo fa collocare sull’altare principale; dal 1511 commissiona tutte le parti pittoriche dell’Altare al Grünewald. È alquanto difficile capire quanto il Guers abbia contribuito all’elaborazione della complessa simbologia iconologica dell’intero Polittico, ispirata alle Sacre Scritture ed ai testi teologici medioevali, ma indubbiamente il suo intervento deve essere stato rilevante. In tal senso, oggi ci si chiede come mai viene prodotta un’opera di tale valore ed importanza, nonché di straordinaria bellezza, in un luogo che pur sede di un’Abbazia rilevante e di un Ordine potente (tant’è che si permette spese rilevanti per la sua realizzazione), rimane geograficamente periferico ed alquanto isolato, rispetto alle città, anche se il Convento si trovava sulla strada dei pellegrini che si recavano a Santiago di Compostela od a Roma. Ed allora siamo noi oggi, che dobbiamo chiederci che cosa è per noi autenticamente importante, per che cosa viviamo, quali valori contano. In quell’epoca, era determinante, quasi indispensabile, creare queste opere che assumevano in sé tutti i significati e valori religiosi, civili o terapeutici che fossero, erano punto di riferimento: c’erano, esistevano. Era il concorso del popolo che contribuiva in modo determinante alla costruzione delle Cattedrali. Oggi non è più così. Tuttavia l’importanza del Polittico, che appartiene all’ultima generazione dei grandi polittici tedeschi, rientra senza dubbio anche in una forma di competizione tra i vari Ordini, che rimarcavano così la propria identità e rilevanza. E va sottolineato come, dal medioevo è la religione che gestisce la cura dei malati, dato che non era solo il corpo l’oggetto di cura , ma soprattutto l’anima.
All’inizio abbiamo visto le tre immagini che presentano l’insieme dei pannelli scolpiti e dipinti, ma per capire meglio come sono i movimenti delle varie aperture, ecco l’immagine della riproduzione che acquistai ad Isenheim che evidenzia il movimento delle quattro ante, quella della predella non era come nella riproduzione, ma divisa in due pannelli che scivolavano uno per lato su una specie di rotaia.
Purtroppo, nel corso del tempo e degli spostamenti, si è persa completamente tutta la parte superiore dell’Altare di impostazione prettamente gotica, che raggiungeva un’altezza di quasi otto metri, (tre metri e mezzo è l’altezza delle parti dipinte) e determinava un fascino ed una attrazione visiva molto forte. Ne vediamo, in un disegno, una possibile ricostruzione ed un esempio, ancora integro oggi, nell’Altare principale con l’Incoronazione della Vergine, 1523-6, del Maestro H. L. nella Collegiata di S. Stefano a Breisach, nel Baden-Wurttemberg. Notiamo come in Germania, ma non solamente, permangano ancora degli stilemi e impostazioni gotiche nel terzo decennio del Cinquecento, quando da noi già fioriscono le prime opere manieristico rinascimentali.
Ma iniziamo proprio dalle sculture, cioè dalla prima parte realizzata del Polittico e dallo scultore alsaziano e tardo gotico Nicolas de Haguenau (1460 circa-1538) di cui si hanno scarse notizie, come per Grünewald, e la sua opera più rilevante è questa di Isenheim. Nelle tre nicchie gotiche, ornate da viticci, foglie, uccelli ed in quella centrale anche dai simboli degli evangelisti, abbiamo sculture, in legno di tiglio, policrome e dorate. Al centro, seduto su un trono S. Antonio Abate il cui pastorale ha la Tau, simbolo dell’Ordine degli Antoniani, mentre la mano sinistra regge il libro dell’Ordine. Indossa il suo solito copricapo da eremita con un’espressione come assente, guarda oltre, è colto nella sua essenza di anacoreta. Ai suoi piedi il fedele maialino col marchio degli Antoniti, ed inginocchiati due offerenti, uno con mantello e lunga capigliatura, quindi un probabile nobile, che guarda il santo e offre una specie di ventaglio e un pollo e l’altro un contadino che indica col dito il santo e offre un maialino. Alla destra di S. Antonio abbiamo in piedi S. Agostino, in quanto nel 1298 gli Antoniti hanno adottato la regola monastica agostiniana, ai suoi piedi e rivolto al santo eremita la figura di un Abate, probabilmente ritratto dell’Orlier o del Guers, i due abati committenti dell’Altare (le ricerche sulle fisionomie dei due personaggi non hanno portato all’individuazione di chi sia stato raffigurato). La scultura alla sinistra di S. Antonio rappresenta S. Gerolamo, in quanto autore di una Vita Pauli in cui è narrato l’incontro nel deserto di S. Paolo Eremita con S. Antonio Abate, soggetto del pannello dipinto da Grünewald a sinistra di queste sculture, che analizzeremo più avanti. Da notare le diverse proporzioni di queste sculture che ne sanciscono la relativa importanza, la maggiore ovviamente quella di S. Antonio che è il dedicatario dell’intero Polittico, poi i due santi Agostino e Gerolamo, più piccolo l’abate inginocchiato, ancora più piccoli il nobile ed il contadino, ma questo ha la testa più grossa.
Nella predella, suddivisa in cinque scomparti abbiamo al centro il Cristo benedicente, nelle altre gli apostoli a colloquio tra di loro. Una parte degli storici dell’Arte sostengono che solo il Cristo è frutto della mano di Haguenau, mentre gli apostoli sono di altro scultore, meno capace, il che non mi vede concorde in quanto anche i gruppi dei seguaci di Cristo intrattengono rapporti vivi ed intensi tra i loro componenti. Tutta la parte scultorea si dà per terminata entro il 1505. L’abilità tecnica ed espressiva di Haguenau è confermata da un altro S. Antonio, attualmente al Metropolitan di N.Y.
Rivediamo l’immagine dell’Altare per come si presentava quotidianamente ai fedeli nell’abside della chiesa di Isenheim. A tutt’oggi non è ancora chiara la sequenza storica delle aperture secondo il calendario delle festività o degli eventi possibili. In linea di massima la prima apertura doveva
avvenire alle feste principali: Natale, Epifania, Pasqua, Ascensione, Pentecoste, Santissima Trinità, Corpus Domini e feste mariane. La seconda apertura ovviamente in occasione delle feste relative ai santi raffigurati, ma credo (mia ipotesi sui dati storici) anche nelle occasioni di eventi o preghiere con la presenza degli ammalati dell’ospedale, viste le qualità taumaturgiche dell’Altare. Quindi normalmente abbiamo esposti quattro pannelli: la scena centrale mostra la Crocefissione, nelle ante laterali a sinistra S. Sebastiano, a destra S. Antonio Abate e nella predella il Compianto sul Cristo morto. Le due ante con i santi rimangono fisse, inamovibili, rimangono coperte, ovviamente, all’ apertura delle ante successive, ma sono simbolicamente fondamentali per comprendere significati e funzione dell’intera macchina. Il contesto ospedaliero è una presenza determinante e possiamo dire moderatore nella lettura dei significati onde evitare interpretazioni troppo teologiche. Siamo in un contesto, appunto, che ha un legame indissolubile con la realtà della malattia e del conseguente dolore fisico, ma anche morale. L’opera, quindi, non va considerata solo per i suoi valori strettamente religiosi, ma anche come mezzo per ottenere il risanamento e la salvezza del corpo, ma anche dell’anima. I due santi ne sono la evidente conferma, infatti S. Sebastiano, martire sotto Diocleziano, viene invocato a protezione dalle peste, in quanto sopravvissuto alle ferite, equivalenti alle piaghe, delle frecce. Ormai scontate le qualità di S. Antonio Abate ed Eremita, che qui si rimarcano anche per la sua maggiore dimensione rispetto a Sebastiano. Entrambi sono posti su dei piedestalli monocromi, che suggeriscono l’idea di statue viventi e che sembrerebbero quasi dei capitelli capovolti in cui si evidenziano delle foglie di vite, quale simbolo eucaristico nel S. Antonio e anche di edera, quale simbolo di fedeltà e devozione, nel S. Sebastiano. Le due basi nella loro impostazione prospettica determinano una precisa dimensione spaziale, che chiude idealmente lo spazio aperto della Crocefissione.
Ancora oggi è ampiamente discussa se l’attuale collocazione delle due ante sia quella giusta e non vada invece invertita, gli argomenti non sono sufficienti ad una soluzione condivisa. Personalmente, sul piano della composizione pittorica, mi convince maggiormente l’attuale combinazione con le due aperture-finestre ai lati esterni, mentre la parte scura si accorda con il buio della Crocefissione, dando senso di continuità ed omogeneità. Semplice l’atteggiamento del S. Antonio che tiene il suo pastorale con la Tau e regge delicatamente il mantello rosso. Una lesena è alle spalle e mentre nella finestra compare un demonio che la sta demolendo, i pezzi rotti cadono, per attaccare poi il santo, un episodio costante nella narrazione della sua vita e che vedremo più avanti nella Tentazione. L’espressione del santo è di assoluta indifferenza rispetto a ciò che sta accadendo.
Anche il volto del S. Sebastiano non riflette dolore, ma calma e sopportazione, parte delle frecce che lo hanno colpito sono già state tolte dal suo corpo, è come in fase di cura, infatti nel cielo in un monocromo trasparente sono raffigurati degli angioletti che reggono una corona per il suo martirio ed un altro che tiene le frecce tolte, un’altra è infilata in una corda intorno alla colonna ed altre due appoggiate alla sua base. Del tutto particolare il gesto delle mani sollevate, una nell’altra, come a sostenere e sopportare, ma anche a fare da controcanto e supporto al gesto indicativo del S. Giovanni Battista nella scena a fianco.
Questa Crocefissione, nell’ambito della intera storia dell’Arte, è indubbiamente la più tragica e potente nella sua espressività sconcertante della sofferenza.
Grünewald ed i committenti non seguono la tradizionale impostazione ed inseriscono importanti novità e variazioni. La più rilevante è la ieratica presenza, per la prima volta, sulla destra, di S. Giovanni Battista, ultimo Profeta della Antica Alleanza e Precursore (che al momento della Crocefissione in realtà è già stato decapitato) che tiene nella sinistra il Vecchio Testamento, scritto a mano, e con la mano destra indica il Cristo, la Nuova Alleanza. Tra il suo braccio ed il volto sono scritte in rosso le parole che sta pronunciando, riprendendo la testimonianza resa sul Giordano nel momento del Battesimo “ILLUM OPORTET CRESCERE ME AUTEM MINVI” (Giov.30,3) ”Egli deve crescere e io invece diminuire”. Ai suoi piedi l’agnello mistico tiene una piccola croce e dal suo petto sgorga il sangue (come il sangue che sgorga dalla ferita nel costato di Cristo) che si raccoglie nel calice, che richiama quello dell’Ultima Cena e la sua valenza eucaristica. In questo lato della Crocefissione avviene il superamento del momento storico a favore del “Mistero” del Sacrificio, al di fuori del tempo reale. Dall’altro lato abbiamo i tre testimoni assoluti del tragico sacrificio, S. Giovanni Evangelista, che rappresenta il Nuovo Testamento, angosciato, il volto teso, che sostiene la Madonna livida, disfatta e sopraffatta dal dolore che si esprime anche nelle mani (come abbiamo già visto). Entrambi formano, anche nella loro inclinazione, un blocco unico. La Maddalena, inginocchiata e con la schiena inarcata, torce il proprio corpo in un gesto di implorazione, volgendo uno sguardo disperato a Gesù, sollevando le braccia e stringendo le mani, ma a dita tese come a trasmettere e lanciare la tensione. Davanti a lei il vaso dell’unguento che annuncia il momento della sepoltura, su cui c’è la data 1515. Sul piano del colore è puntualmente leggibile un altro aspetto che verrà poi sviluppato nella prima apertura: sul cielo che si è fatto buio, nero, privo di stelle, per l’eclisse di sole al momento della morte del Cristo, entro un paesaggio fatto solo di pietre ed un fiume, prevalgono i giochi dei rossi mantelli e dell’aranciato dell’abito della Maddalena sul quale si armonizzano i lunghi capelli biondi leggermente arricciati, unica pausa in questa tragedia, dunque toni caldi in contrasto col bianco gelido del manto di Maria e delle due altre macchie bianche: l’agnello ed il libro sacro, tutti e tre simbolicamente immacolati rispetto al resto. Ma anche nelle dimensioni dei personaggi è evidente una differenza, più piccola la Maddalena, poi gli altri tre partecipanti e più grande il Cristo, a tutta altezza della scena.
La croce è sbozzata rozzamente, con travi montate ad incastro, la scritta INRI è su un foglio fissato ad una tavoletta appesa con una catena ad un chiodo, ben lungi dalle croci dell’Arte italiana quasi sempre prodotti di alta falegnameria e quindi: più simbolo che realtà concreta. Un particolare è decisamente interessante ed è la scarsa altezza della croce, i piedi del Cristo distano 30/40 cm dal terreno, non di più, confermando un dato, tratto da antichi documenti, che le croci erano molto ridotte nella loro altezza, addirittura era possibile che i condannati appoggiassero i piedi sul terreno. Qui apro una breve parentesi su questo aspetto particolarmente intrigante, in cui, grazie ad alcuni dipinti ed in particolare del pittore russo Nikolai Ge (1831-1894) che, laureato in matematica, si dedica successivamente alla pittura, ma con una puntuale attenzione ad una resa realistica di quanto dipinge, anche sul piano della verità storica. Sono decisamente interessanti due sue Crocefissioni, dipinte nella piena maturità, che ci mostrano come nella realtà e molto più verosimilmente erano realizzate le croci per i condannati a morte da parte dei Romani. Croci grossolane, appena sbozzate, a cui i condannati venivano molto più frequentemente legati che inchiodati, subendo poi, una lunga agonia per soffocamento. L’uso della inchiodatura, tra l’altro col particolare della mano che non è fissata alla parte frontale dell’asse orizzontale ma nella parte superiore, è molto raro, ma metodo, probabilmente usato, nei confronti di Gesù, per aumentarne le sofferenze, infatti Nikolai, in uno dei due dipinti, aggiunge un’asse sul terreno onde potervi inchiodare i piedi. In questo senso c’è una foto che Nikolai, si è fatto fare, mentre nudo è legato ad una croce, realizzata nel suo studio, così da poter studiare realisticamente le posizioni e gli effetti. Qui si apre un capitolo enorme sulla realtà storica e sulla veridicità di queste modalità, ma poi, soprattutto, in merito alle reliquie storiche che ci sarebbero pervenute dalla Crocefissione del Nazareno, in quanto numericamente moltiplicate rispetto alla narrazione evangelica, ma non è argomento di questo saggio.
Ma la cruda realtà, appunto, prende il sopravvento nella immagine del Cristo, come del resto era richiesta nelle Andachtsbilder le immagini devozionali che invitavano il credente a concentrarsi sulle sofferenze di Gesù. Qui arriviamo all’apice descrittiva di tali sofferenze. Siamo al momento successivo alla morte del Cristo, le braccia hanno perso ogni resistenza e si sono allungate ulteriormente, il capo si reclina, gli occhi sono chiusi, la bocca livida ha esalato l’ultimo respiro, la grossolana e violenta corona di spine penetra ancora, anche nella carne delle spalle e del busto, la cassa toracica sollevata rivela il soffocamento che ha provocato la morte. Ogni parte del corpo è ricoperta dai segni della flagellazione fatta con rami le cui punte sono rimaste infilzate nella carne, sgorga l’ultimo fiotto di sangue dal costato, anche il perizoma stracciato porta i segni dei colpi.
Le mani perforate dal grosso chiodo che le ha fissate nella parte superiore della trave, sono rimaste bloccate a dita spalancate per la tremenda tensione di reggere il peso del corpo, i piedi deformati dal peso intorno al chiodo hanno ancora il sangue che sgocciola. Nessun brano di corpo è rimasto intatto, ogni dettaglio esprime il supplizio subito. L’intensità delle lacerazioni sistematicamente distribuite sul corpo davano e danno, ad ognuno il ribrezzo difronte a tale crudeltà e contemporaneamente un’intensa partecipazione non solo emotiva, ma come percepita sulla propria pelle. Impossibile l’indifferenza. E qui dobbiamo immaginarci lo sguardo intenso, commosso, la autentica partecipazione e condivisione del malato che portava sulla sua pelle e nella carne i gravi segni, le pustole delle malattie, sentiva i bruciori e i dolori e nell’immedesimarsi pregava intensamente nella speranza di una guarigione.
Non possiamo ignorare le altre tre Crocefissioni, che ci sono giunte e create da Grünewald, anche per capire che, di fondo, la tipologia del Cristo di Isenheim non è stata costruita solo per questo Altare, ma è una concezione costante in tutta la sua opera. Nella Crocefissione di Basilea con una datazione, assegnata solamente su basi stilistiche intorno agli anni
1503-10, di piccole dimensioni 73 x 52 cm, è sempre raffigurato il momento dell’ultimo respiro, il Cristo è una chiara anticipazione di tutti i particolari di quello di Isenheim, ma con minore tensione, Gesù è meno isolato, gli astanti gli sono accanto, La Madonna con gli occhi rossi di pianto, le lacrime creano un lungo rivolo bianco, è di poco più isolata, completamente avvolta nel mantello blu, da cui spuntano solo le mani tormentate e trattenute. Giovanni è proprio accanto a Gesù, stringe le mani e con la Maddalena e Maria di Cleofa fanno blocco unico, anche coloristicamente, e sempre con un attento gioco delle mani in rapporto ai piedi del Cristo. Accanto a Giovanni un soldato con armatura, il centurione romano, che alza il braccio e pronuncia le parole “VERE, FILIUS DEI, ERAT ILLE” (Marco 15,39) “Davvero quest’uomo era figlio di Dio”. Una seconda Crocefissione, ora a Washington (61 x 46 cm), segna indubbiamente un passaggio più accentuato verso quella di Isenheim, il dramma si accentua sia nel corpo del Cristo che nell’atteggiamento dei testimoni che si riducono a tre: la Madonna sempre più chiusa nel suo tragico dolore, Giovanni che stringe le dita piegando indietro le mani, la Maddalena che le apre, invece, ma urla il proprio dolore. Il paesaggio è sempre brullo e aspro, purtroppo la montagna alle spalle della Madonna, che sembra assorbirla, è stata ridipinta e quindi ingiudicabile. Il Cristo acquista maggior dimensione, si smagrisce ulteriormente e la cassa toracica si accentua, la corona di spine si evidenzia maggiormente, l’asse longitudinale della croce si curva, non è più orizzontale, come a sentire il peso del corpo e del dramma. Il colore si fa più livido, spento rispetto al dipinto di Basilea, compare in alto a destra l’eclisse di sole, che giustifica il cielo scuro. Queste caratteristiche determinano una datazione più vicina a quella di Isenheim, 1510-16, e la quasi certezza che queste due tavole sono concepite certamente come opere votive autonome.
La terza Crocefissione è, molto probabilmente, una delle ultime opere dipinte dal Grünewald, la datazione presunta è intorno al 1523-5. Parte, forse, di un Polittico per la chiesa di Tauberbischofsheim, sul suo retro era dipinto un Cristo portacroce. L’intensa espressività legata ad una monumentale essenzialità la fanno intendere, appunto, come opera tarda. La composizione raggiunge la massima semplicità e concentrazione degli effetti patetici, nonostante la sua dimensione (195 x 142 cm) ed il paesaggio è ridotto ad una indistinguibile vallata verdastra. Il corpo di Gesù è più robusto, più grande la testa ed in particolare la stessa corona di spine, ma diversamente dagli altri qui il Cristo è ancora vivo, il capo si sta sempre più reclinando, l’occhio è semichiuso, la bocca aperta esala gli ultimi respiri, una variante che rende sempre vivo e motivato il dipingere.
Ritornando al nostro Altare, a chiudere la visione normale ci rimane la predella con il Compianto sul Cristo morto, dove l’intensità drammatica della Crocefissione si scioglie in una dolente scena di lutto. I personaggi sono situati a destra lasciando lo spazio a sinistra vuoto, rimarcandone il senso col sepolcro appunto vuoto, davanti al quale è posta la grossa corona di spine. Questa soluzione tenta di riequilibrare i pieni (i tre a sinistra della croce) e vuoti dello spazio superiore, che ne riprende addirittura l’inclinazione sempre nel S. Giovanni e nella testa di Gesù, il cui corpo martoriato è disteso, si è come abbandonato. Ciò è evidente nella mano sinistra, mentre la destra ed i piedi conservano una tensione irrigidita. Nel volto rimane la piega amara della bocca, ed una particolarità sta nel come il nostro pittore colloca le due figure della Madonna e della Maddalena, ne vediamo solamente le parti superiori dei busti, il resto dov’è? Sono in una fossa accanto al sepolcro? Questo non soffermarsi su aspetti formali è tipico degli artisti veri, che non si preoccupano eccessivamente della realtà concreta, ma la piegano alle loro necessità espressive. Qui era importante avere allo stesso livello le teste dei presenti, quindi ci accorgiamo di come il Cristo rimanga comunque di una dimensione maggiore. Mentre la Maddalena esprime apertamente tutto il suo dolore, la Madonna si rinchiude sempre in sé, non vediamo gli occhi che piangono, ma le lagrime che scendono e sempre le mani in articolazioni del tutto particolari. Dietro la base della croce, ma tra due alberi. Come già detto, quando l’Altare si apriva le due parti in cui era diviso il Compianto (notare il legno grigio che copre il taglio) scivolavano una a destra l’altra a sinistra, tagliando le gambe del Cristo, che appariva anche lui come amputato, un’ulteriore immedesimazione che poteva scattare da parte di chi, ammalato, subiva un simile intervento di chirurgia, che era tra i più consueti nell’ospedale di Isenheim.
Con la Prima Apertura il clima cambia completamente, non solo sul piano dei soggetti e relative simbologie, ma anche sul piano della pittura vera e propria. Se con la Crocefissione viene trattato il tema della Redenzione, qui abbiamo quello della Incarnazione. Da sinistra, gli episodi: l’Annunciazione, il Concerto degli angeli, la Natività e la Resurrezione. Immediata la diversa sensazione del colore e della luminosità, con rimbalzi e rimandi tra le singole scene di zone più o meno irridescenti.
La scena dell’Annunciazione si svolge in un ambiente ecclesiale, ma che, grazie all’inserimento di due tende, una rossa l’altra verde, si trasforma in spazio più intimo, casalingo: ci sono una credenza, dei libri e una cassapanca sui cui poggia il grande libro che la Vergine sta leggendo. Dunque, un contesto che sottolinea la consonanza tra Madonna e Chiesa. Il libro è aperto sul testo di Isaia (7, 14-15), che è ben leggibile anche dal fedele, “Ecce Virgo concipiet et pariet filium et vocabitur nomen ejus Emmanuel…” “Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele…” la ripetizione in seconda pagina del testo lo fa intendere come un breviario. La Vergine, avvolta in un mantello blu scuro dal risvolto rosso e su cui risaltano i lunghi capelli biondi, è come colta di sorpresa dall’apparizione dell’arcangelo, e sembra sciogliere le mani che erano giunte per la preghiera. Gabriele, ancora nel turbine del suo planare dal cielo con gli svolazzi del suo mantello, regge uno scettro e con due dita della mano indica la fanciulla, gesto che è dovuto ad una evidente correzione, inizialmente le dita indicavano la colomba dello Spirito Santo che aleggia, in una sua luminosità, al di sopra della tenda verde. Una sottolineatura dell’importanza di Maria, che gira il viso, ma guarda
in tralice verso l’arcangelo. È molto interessante un disegno di Grünewald in cui ha studiato un altro atteggiamento per la Vergine, lo spavento per l’improvvisa apparizione dell’arcangelo la porta a proteggersi il volto con la mano, causando quella particolare ombra sulla guancia e sul mento che, anche con l’altra ombra sulla mano che gira la pagina, ci conferma la particolare attenzione del nostro pittore per gli effetti della luce. Non meno straordinario il gioco di luci ed ombre sul bellissimo abito plissettato, che è un’altra specialità del Grünewald, che vedremo anche più avanti. Anche nei capelli stessi di Gabriele osserviamo un passaggio di ombre e luci che riscontriamo anche
nell’alternanza delle volte ad ogiva, dove la sensibile variazione della luce si va attenuando verso le vetrate di fondo. Una ombra intensa nello spazio domestico, così da far risaltare nella vela della volta la scultura con il profeta, che tiene un libro e sottolinea in questo modo che tutto era già scritto. Contrasto marcato nelle vele della volta successiva che ha i costoloni rossi, che diventano verdi ed aumentano di numero nella volta successiva, dove la luce si fa più diffusa. Il tutto costruito tramite una prospettiva precisa, che riscontriamo anche nel pavimento, e verrebbe da riferirsi ad un qualche influsso del rinascimento italiano, ma di ciò nessun elemento può andare oltre alla semplice sensazione, nessun contatto ci risulta, tanto meno un probabile viaggio in Italia. L’unico possibile tramite, potrebbe essere il Durer, ma comunque sempre a livello di ipotesi.
I due episodi successivi, il Concerto degli angeli e la Natività, si presentano come uno spazio unificato, solamente una tenda nera uniforma il fondo nel Concerto, ma nella rappresentazione non c’è né unità di tempo né di luogo. È una contraddizione, ma bisogna prenderne atto, gli artisti si prendono, fortunatamente, queste straordinarie libertà. La cosa ha posto enormi difficoltà agli storici dell’Arte, che, in buona parte, non hanno capito che l’Arte va ben al di là del dato storico e delle spiegazioni logiche, qui c’è pura fantasia e combinazione di elementi fantastici che si inseriscono in una realtà quotidiana molto più semplice, che poi questa si faccia Storia è una ulteriore aggiunta di significati, decisamente superiori alla realtà stessa. Siamo come difronte ad un particolare palcoscenico dove Grünewald è come un Walt Disney in anticipo, che accosta elementi incoerenti, ma con risultato accattivante, valido ed efficiente.
Il secondo episodio è dunque semplicemente fantastico: nel Concerto degli angeli il pittore si abbandona al gioco delle luci e dei colori, riuscendo a non dare, giustamente, consistenza fisica agli angeli musicisti. In quello in primo piano ciò è particolarmente evidente, per quello strano colore, quasi trasparente nella sua luminosità e nel suo rosa molto chiaro con velature azzurrastre, che con attento stratagemma viene ripreso dallo svolazzo dell’abito dell’angelo dietro di lui, dando continuità coloristica. Le ali sono dello stesso colore dell’abito come la viola da gamba, priva di peso in quanto appoggia sulla parte di abito ancora sollevato da terra senza fare alcuna piega. La creatura angelica ha i capelli di un biondo rossiccio, un viso asimmetrico e da ragazzino di strada più che angelico, e oltretutto suona disinvoltamente con l’archetto a rovescio. Sopra due gradini, dietro, c’è un tempietto, ma direi più un’edicola in stile gotico fiammeggiante, con colonnine dorate, una lunetta che anticipa il liberty nei suoi giochi lineari, alcune statue di profeti o santi su capitelli o peducci. Uno senz’altro, poiché regge le tavole della legge, è Mosè, al centro due che sono in vivace e gesticolante colloquio li individuerei, visto il contesto in cui siamo, in S. Paolo Eremita quello col cappello ed un gilet con delle code e l’altro non può che essere S. Antonio Abate. Sotto di loro un profeta a braccia incrociate ha un’espressione decisamente pensierosa. Sotto un baldacchino di stoffa all’interno dell’edicola, sono concentrate una serie di presenze eteree di diverse dimensioni e colori tutti con le ali, di cui alcuni immersi in aureole. Ma si evidenziano un angelo in rosso che suona una viola e dietro di lui un personaggio, con le ali ma anche il corpo ricoperto da piume, uno strano ciuffo di capelli sull’orecchio e in cima al capo una bizzarra e probabile cresta, il tutto con una tonalità grigioverde, così come le dita molto affusolate e con anelli, il volto di profilo che guarda in alto ed a bocca aperta, con una strana espressione tra il sospeso e il dubbioso. Non ha l’aria di chi dovrebbe cantare, né sembra un angelo. È l’unica figura non luminosa, priva di aureola, indubbiamente una presenza di altra natura rispetto a tutti gli altri, se non negativa almeno inquietante, non a caso tra la sua testa e lo strumento musicale una testina aureolata ha gli occhi chiusi, diversamente da tutti gli altri. Qualcuno ha proposto che possa essere lo stesso Lucifero, quale costante presenza del male ovunque, a ricordare l’eterna lotta tra il bene e il male. Un contrasto che ha la funzione di esaltare un qualcosa d’altro, un fondamentale principio pittorico che non a caso il Grünewald usa ed inserisce in quanto nella parte dell’edicola che guarda verso la Natività abbiamo il Bene assoluto. È quella immagine di pura luce della Vergine con doppia aureola, già incoronata ed a mani giunte, che guarda verso l’altra sé stessa che tiene in braccio il prodotto: il figlio di Dio. Non può essere che la Immacolata Concezione e cioè la purezza, infatti sopra di lei due figure angeliche reggono uno scettro ed una corona mentre in una lunetta color ocra e molto luminosa appare un probabile Padreterno, con un cerchio di luce sulla testa e un anziano inginocchiato davanti a lui.
Ecco che, con questa lettura, il rapporto tra le due scene, apparentemente incoerente, si rende logico, infatti sul gradino successivo, sotto alla Immacolata, è appoggiata una ampolla di cristallo completamente trasparente e limpida e non casualmente, quale simbolo di Purezza. Questo specifico particolare mi ricorda un’Annunciazione di Filippo Lippi del 1440, nella chiesa di S. Lorenzo a Firenze, in cui in primo piano, in una specifica ansa del gradino è posta una ampolla di cristallo. Il Grünewald non poteva conoscere certamente questo dipinto, ma il valore è nelle comuni e consolidate simbologie.
Davanti al simbolo della Purezza, c’è un mastello di legno con tanto di asciugamano per il bagnetto del piccolo neonato, accanto c’è un vasino per il piccolo, che sotto il bordo ha delle lettere ebraiche, qualcuno lo interpreta come una possibile manifestazione antigiudaica, alquanto frequente all’epoca. Accanto alla Madonna vediamo la culla con le piccole candide lenzuola e sul cuscino è già posto un nastro viola, quale segno funebre. Ecco che la contraddizione apparente si dissolve, oggetti quotidiani sono parte di un mondo spirituale in un rapporto ambivalente. Ma questo continua anche nella Natività, che si direbbe più una Madonna col Bambino, splendida nel sontuoso abito rosso, bordato di pelliccia ed avvolta nel mantello di un blu intenso, le cui pieghe ricadono, con attenzione alla loro regolarità, sul muretto dove lei è seduta, nel suo giardino, l’hortus conclusus, con le rose rosse senza spine e l’albero di fico, che è simbolo di verginità in quanto i suoi frutti crescono senza impollinazione. Si vede il muro di cinta con l’arco dell’ingresso e qui un’altra delle straordinarie invenzioni del Grünewald: al posto del cancello c’è la Croce, è già lì a segnare l’ineluttabile destino, non meno del panno bianco con cui il piccolo, che gioca con una coroncina dorata di un rosario, è quasi avvolto e che è già logoro e strappato, come sarà il suo perizoma sulla croce.
Ciò non toglie nulla all’intenso e dolce sguardo pieno d’amore della Madonna e alla tenerezza con cui tiene il bimbo, del resto è una mamma, come tante. Oltre il fiume, su un altopiano alla cui base sta una chiesa, si svolge l’Annuncio ai pastori, che sono sovradimensionati come proporzione e anche trasparenti, dunque più un’apparizione che una realtà, e dietro un grande monte roccioso e scosceso la cui cima è immersa in una intensa ombra provocata dal Paradiso (una non realtà fisica che però produce un’ombra vera, altra contraddizione) con Dio, il papà, che circondato dalla sua corte angelica, ammira dall’alto il proprio figliolo. Reale e sovrannaturale coesistono costantemente, senza alcun problema, grazie ad una pittura di grande qualità che supera e va oltre i dati storici o razionali, come vedremo anche nel prossimo pannello. Proprio questa anta della Natività per la sua resa dello spazio e per l’uso della luce fa spesso parlare di una modalità più italiana che tedesca, ma, come detto, rimane una sensazione e una ipotesi visiva.
Nella Resurrezione si passa direttamente al momento finale della vita terrena del Cristo, ma per come lo imposta il Grünewald diviene anche la rappresentazione della Trasfigurazione e della Ascensione. Infatti il Cristo luminoso e radioso si eleva nella notte nel cielo pieno di stelle, avvolto nel suo sudario volteggiante, è l’uomo che ritorna Dio, perde qualsiasi consistenza fisica e diventa pura luce, puro spirito. Nel racconto evangelico Gesù appare agli apostoli dopo la Resurrezione, che vedendolo furono colti dallo spavento “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne ed ossa come io ho” (Luca 24,39). Quando impartì le sue ultime istruzioni, li condusse verso Betania e levando le mani li benedisse “Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo” (Luca 24, 51). È Il momento che sceglie Grünewald, ma qui abbiamo il sepolcro e le guardie. Nella Resurrezione non c’è la presenza di Gesù, ma: “Ed ecco che vi fu un gran terremoto: un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco come la neve. Per lo spavento che ebbero di lui le guardie tremarono tramortite” (Matteo 28, 2-4) ed è, in parte, ciò che qui è raffigurato. Non c’è l’angelo, che è come identificato dallo stesso Gesù, il cui sudario nella parte ancora nel sepolcro e poco fuori, è candido sino alle gambe di Gesù, che nei piedi ha le stimmate, poi nel successivo elevarsi, la stoffa si fa di più colori, dal bianco all’azzurro, al rosso, all’arancione, al giallo tornando quasi al bianco nel volto del Cristo, che è immerso al centro di tre cerchi colorati, giallo rosso ed azzurro. Impossibile sapere quanto Grünewald potesse conoscere Dante, ma il riferimento alle tre righe del Paradiso canto XXXIII, 115,117 è inevitabile “…Ne la profonda e chiara sussistenza/de l’alto lume parvermi tre giri/ di tre colori e d’una contenenza;”. E non solo, qui il nostro pittore diventa anche nostro contemporaneo nei sapienti e straordinari passaggi coloristici del sudario che si fonde nella luce e nel colore, è informale, quasi astratto.
Che dire poi del grande masso che, illuminato di riflesso dalla luce calda dell’apparizione, sembra cambiare natura ed a sua volta aleggia nella notte. Chi invece è come precipitato a terra sono i quattro soldati, i loro visi sono rivolti tutti in basso, ribaltato sulla schiena quello in primo piano, gli altri tre carponi: è come se la luce avesse anche un peso fisico che non riescono a reggere ed a cui non possono contrapporsi. Al senso di peso contribuisce la particolare attenzione data alla descrizione delle pesanti armature nei loro minimi dettagli, come la notevole maglia metallica di quello ribaltato.
A questo punto mi viene spontanea una riflessione su come il Grunewald ci raffigura i due momenti cardine del Cristo: sulla croce morto e poi risorto, usando l’evidenza reale della pittura che diviene linguaggio filosofico-teologico. La Morte è nella realtà l’evento in assoluto più sconcertante della vita dell’uomo, la morte viene vissuta dal Cristo in tutto il suo orrore, un vero e proprio “scandalo”, che si manifesta in tutta la sua atrocità sconvolgente. Le Crocefissioni del nostro pittore rappresentano Cristo con la bocca aperta, da cui promana l’impressionante urlo di morte. Giovanni Testori in Grunewald, la bestemmia e il trionfo scrive: ” Sarà proprio in Cristo, nello strazio del suo corpo, nella coesistenza, in esso, dell’atemporalità più assoluta e abbagliante e della temporalità più caduca e sanguinante (del verbo, insomma e della materia) che Grunewald realizzerà il sunto, la figura tipica o, diciamolo pure, il prototipo, rovesciato e arrovesciante, insieme vindice e schiavo, prono e vittorioso, di quello scandalo. Nel Cristo viene riassunto in modo emblematico l’enorme povero strazio di tutti i servi e di tutti i vinti che sempre furono e saranno infangati, assassinati e distrutti”. Preso atto di questo, viviamo poi il netto contrasto del Cristo risorto che è pura luce, e cioè, senza l’orrore della disumanizzante morte che subisce il Cristo non avremmo il trionfo della sua Resurrezione, infatti S. Paolo può cantare: “La morte è stata distrutta: vittoria! Dov’è, morte, la tua vittoria? Dov’è morte il tuo pungiglione”. Proprio per il fatto che ha profondamente compreso ed efficacemente rappresentato quello scandalo della morte che Grunewald può darci la visione della gloria straordinaria della Resurrezione. Testori precisa che in essa “Cristo sembra lasciar il sepolcro trascinandosi dietro qualcosa che non ha soltanto la forma e la sostanza d’un sudario ma quello d’una placenta izuppata di liquidi amniotici e accesa, insieme, di zolfi e di lampi innici e come trafugatori di ciò che sembra essere e appartenere veramente al Dio eterno…” Resurrezione dalla carne e non della carne, come puntualizza Plotino. Ecco che , per chi crede, può affermare che si impone e verifica quel pronunciamento evangelico che Grunewald richiama, tramite il Giovanni Battista ILLUM OPORTET CRESCERE.
Ora non ci rimangono che le due ante laterali della Seconda Apertura, quella con le sculture, che abbiamo già analizzato, e dedicate al patrono dell’Ordine in due momenti significativi della sua vita: a sinistra la Visita di S. Antonio Abate a S. Paolo Eremita, a destra Le tentazioni di S. Antonio. Gli episodi si ispirano alla Vita S. Antonii di Atanasio di Alessandria del IV sec. d.C.
In sogno ad Antonio viene comunicato che c’è un Eremita migliore di lui, così decide di conoscerlo ed intraprende un viaggio nel deserto con incontri e peripezie varie, finché vede una lupa che entra in una specie di grotta con una luce in fondo al buio profondo, S. Paolo Eremita, avvertito dai rumori, chiude l’accesso. Antonio è costretto ad implorare per essere ricevuto, minacciando di lasciarsi morire lì, piuttosto che tornare indietro. Così avviene l’incontro in questo luogo tranquillo e desolato, con alberi ricoperti di licheni, rocce ricoperte di muschio, stranamente una palma rigogliosa, probabilmente per i suoi frutti, i datteri, cibo per l’eremita, sul fondo una vallata con un fiume, un cervo che bruca, mentre una cerbiatta si è accovacciata tra i due eremiti in vivace dibattito, che si evidenzia nel loro gesticolare. In alto, arriva il corvo che porta quotidianamente il pane a S. Paolo, che infatti lo sta osservando, ma visto che c’è un ospite ne porta una doppia razione. I due dibattono su chi ha l’onore di spezzare il pane divino, in quanto ognuno si ritiene indegno fino a che, equamente, decidono che ognuno tira il proprio pezzo dalla sua parte. Mentre S. Paolo, che è vestito di una tunica fatta con le foglie intrecciate di palma, ha un atteggiamento disinvolto, S. Antonio mantiene sempre la sua consueta rispettabilità avvolto nel suo mantello grigio azzurro, con l’abito blu e il solito copricapo. Un particolare interessante, che ci riporta al contesto ospedaliero, è che ai piedi dei due Eremiti e in primo piano, sono rappresentate una serie di quattordici piante usate nei medicamenti per la cura delle malattie: verbena, piantaggine grande e lanceolata, papavero, prunella, ederella, ranuncolo ecc… Sulla roccia in basso, accanto al mantello di S. Antonio vi è lo stemma con le insegne di Guy Guers, precettore del convento e committente dell’Altare.
Il secondo pannello illustra le Tentazioni di S. Antonio. Il santo è attaccato dai diavoli mentre è nel deserto coricato a terra. Un’orda di esseri mostruosi lo assedia contemporaneamente e qui la notevole fantasia di Grünewald si scatena liberamente, infatti il testo di Atanasio è più laconico, limitandosi a parlare di graffi, cornate e morsi. Qui si direbbe che siamo in un vero e proprio assalto sproporzionato, anche perché la voluta non reazione di S. Antonio è totale e assoluta. In una decina si accaniscono contro di lui, uno lo afferra per i capelli e lo vuole colpire con una mandibola animale, in due gli vogliono prendere il mantello, uno di loro vorrebbe addirittura e inutilmente romperlo a morsi, l’altro demonio cornuto in fronte ha due occhi destri, a sottolinearci quanto il nostro pittore è attento a tutto ed ogni minimo particolare serve alla creazione di una impossibile realtà, sempre lo stesso demonio, nel braccio e nella spalla è segnato da tanti foruncoli neri, la malattia non risparmia nessuno, nei demoni permane la negatività costante. Un mezzo ippopotamo-rospo, con un calzone solo su una zampa, tiene il gomito del santo col suo braccio che ha le ali, un altro è un grosso uccello con un piumaggio variegato e lunghe zampe, entrambi impugnano un bastone pronti a colpire.
Dietro, altri demoni litigano tra di loro ed altri tentano di distruggere la già più che precaria capanna del santo, mentre un altro cerca di respingere l’intervento di un angelo inviato dal Signore in difesa di Antonio. Infatti, in primo piano sulla destra c’è un cartiglio su un ceppo d’albero con una invocazione in latino “Dove eri, buon Gesù, dove eri, perché non eri presente per guarire le mie ferite?”. Accanto è presente una specie di odierno armadillo con lungo collo irto di punte e becco che vorrebbe prendere il bastone del santo mordendogli la mano che tiene il rosario. Ma a sinistra, del tutto particolare, è un essere ibrido, che ha sì un piede palmato, ma si direbbe anche umano. Questi porta uno strano cappuccio rosso coprispalla che in cima scende e si allunga come una goccia di sangue rappreso, non partecipa all’attacco, sembra un semplice spettatore, si potrebbe dire senz’altro che è un ammalato del “fuoco di S. Antonio” pieno di pustole, col ventre gonfio, il braccio col moncherino alzato (la mano è già caduta) mentre con l’altra mano tiene un sacco rotto in cui ci sono dei libri. La malattia sta trasformando anche lui in un mostriciattolo. Una immagine che ha indubbiamente l’intenzione di risvegliare l’attenzione di chi guarda e prova la medesima sensazione di infiammazione, dolore e consunzione del corpo, che doveva essere quella degli ospiti dell’ospedale.
Giusto per un confronto, è interessante dare un’occhiata ad un paio di altre Tentazioni di S. Antonio, quella ad incisione di Martin Schongauer e quella a Trittico di Hieronymus Bosch.
Schongauer (1450-1528 circa), che abbiamo già visto con la Madonna del roseto, nato a Colmar, è debitore stilisticamente di Roger van der Weyden e si orienta verso una serenità classica, segnando il confine tra il tardogotico e la sensibilità rinascimentale. La sua opera è fondamentale nel campo dell’incisione che diventa una produzione totalmente indipendente ed autonoma dalla pittura, come avviene in Italia col Mantegna o Antonio Pollaiolo. In Germania proseguirà soprattutto con la fondamentale opera incisoria del Durer. Nell’incisione con la Tentazione di S. Antonio si respira ancora la cultura medioevale, ma le figure aleggiano nel cielo, viene meno la pesantezza terrena, e l’autore risolve compositivamente l’immagine con i diavoli che creano un cerchio che ruota intorno al santo. Demoni che sono il risultato fantastico di varie parti di animali diversi montate insieme. Diversa l’atmosfera che si respira nel trittico con le Tentazioni dipinte dal Bosch (dal 1453 al 1516) pittore dei Paesi Bassi, decisamente unico nella Storia dell’Arte, che rispecchia fedelmente lo spirito mistico-religioso dell’epoca, vissuto da tutta la popolazione e non singolarmente. Nelle sue opere percepiamo, in un paesaggio sempre ampio e tutto sommato tranquillo e sereno, un realismo che agisce in senso contrario a quello della natura, fin dall’inizio esso si sforza di esprimere l’immateriale con combinazioni inesauribili delle cose del mondo sensibile che però creano una gran varietà di creature e situazioni fantastiche. Una vera e propria enciclopedia dello spirito medioevale e dei grandi temi religiosi. L’aggressione fisica di Grünewald è totalmente assente in Bosch, infatti il nostro santo non viene distolto dalla sua meditazione dai demoni che lo circondano, rimane isolato, è sì circondato da infinite realtà ma sono intorno a lui, non sopra o addosso, infinite tentazioni appunto, da cui non si lascia coinvolgere, è al centro dei dipinti in ginocchio o col libro in mano, ma indifferente. L’arte bizzarra e fantastica di Bosch, venendo meno il clima culturale religioso medioevale rimane incomprensibile razionalmente, ma straordinariamente affascinante.
Non possiamo non dare un’occhiata a qualche altra opera, il che ci conferma alcuni aspetti molto importanti ed interessanti del Grünewald. Dobbiamo tener conto che si sono perse molte più opere di quella decina, di confermata autografia, che ci sono giunte. Persi ad esempio ben tre Polittici del Duomo di Magonza, noti e famosi per la loro straordinaria potenza espressiva, un dipinto con S. Giovanni, il Trittico di Aschaffemburg con due tele per la cappella Schantz, e il pannello centrale del Polittico della Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor, per la chiesa dei Domenicani di Francoforte, dipinto intorno al 1511, di cui ci rimangono i due pannelli con quattro santi in monocromo (Francoforte, Historisches Museum) mentre quello centrale, di cui vediamo nel disegno una ipotetica ricostruzione, è andato perso.
Tuttora non è chiaro il rapporto con un altro Polittico detto Heller dal nome del committente Jakob Heller, patrizio di Francoforte, la cui realizzazione fu piuttosto lenta, dal 1503 al 1509, ed affidata ad Albrecht Durer, che nel pannello centrale raffigurava L’Assunzione della Vergine e Incoronazione della Vergine. Da lettere di Durer e dello Heller, il Polittico risulta completo e spedito ed a ottobre 1509 il committente si dice soddisfatto. Accade poi che lo stesso Heller si rivolga al Grünewald per completare il Polittico, ignota la motivazione di tale richiesta. Abbiamo descrizioni del Sandrart ed altre del 1620 e dei primi del settecento che descrivono i dipinti ma confondendoli tra di loro. Da questo, dedurre che i Polittici erano due, uno di Durer e l’altro di Grünewald ed in specifico la Trasfigurazione di Cristo è nella logica dei fatti. I quattro santi dei monocromi grünewaldiani si legano maggiormente col relativo pannello centrale sul piano del rapporto simbolico, mentre stilisticamente sono ben diversi e di qualità decisamente superiore rispetto ai monocromi del Polittico dureriano eseguiti dalla sua bottega. Veramente notevoli questi quattro monocromi grünevwaldiani con S. Lorenzo, S. Ciriaco e due sante: Elisabetta e Lucia.
S. Lorenzo è illuminato da una intensa luce dall’alto e da destra, tiene la graticola, con cui è stato martirizzato e con la mano destra un libro. Ampio il gioco delle pieghe della dalmatica che indossa determinando accentuati giochi di luci ed ombre ed una intensa variazione di grigi. Anche S. Ciriaco riceve una forte luce dall’alto, ma da sinistra. Il santo tiene un grosso libro su cui è scritto e leggibile un esorcismo che sta pronunciando per liberare la principessa Artemia, figlia di Diocleziano, dal demonio che la possiede, infatti la tiene per il mento con una fascia, mentre le mani gesticolanti e lo sguardo divergente della fanciulla manifestano chiaramente questa possessione. Entrambi i santi hanno un buio profondo dietro, all’altezza della testa, nel quale sono presenti delle foglie, rispettivamente di luppolo e nespolo per Lorenzo e fico per Ciriaco. La scritta col nome sui piedistalli è posteriore e la loro dimensione rispetto alle due sante è maggiore per il fatto che queste sono inserite all’interno di nicchie con vegetali. Tuttavia presentano lo stesso tipo di illuminazione. La disposizione sottostante, che propongo, mi sembra più logica rispetto a quella indicata da altri, sia sul piano della composizione, sia soprattutto sul piano delle luci (che per i pittori sono comunque e sempre gli elementi dominanti). Essa, con le sante nella parte superiore, stabilisce un miglior equilibrio sia sul piano architettonico, sia su quello d’insieme rispetto alla scena centrale della Trasfigurazione.
La S. Elisabetta ha una doppia ombra, ma stando all’abito e al velo la luce dominante è quella che viene dal centro e cioè dal Gesù che si sta trasfigurando in luce, l’ombra in più è uno stratagemma pittorico per individuare misura e dimensione della lunetta, come accade puntualmente in quella di S. Lucia, la cui ombra è precisa. S. Elisabetta, figlia del re d’Ungheria, si dedica all’elemosina per i poveri e alla cura degli ammalati, infatti qui offre un pezzo di pane e da bere con una brocca, indossa uno splendido abito plissettato con un grosso gioiello, come altrettanto ricco è l’abito di S. Lucia, meno statico in quanto un colpo di vento la investe muovendo le numerose pieghe, ma in particolare i riccioli dei lunghi capelli. Le straordinarie plissettature amplificano con grande sensibilità grandi zone di fitta alternanza di ombre e luci in minime variazioni chiaroscurali. La santa martire, vista la palma, che disegna tra l’altro l’andamento della lunetta, viene individuata, ipoteticamente, come S. Lucia, ma non mostra i due occhi come in tutte le sue iconografie, per definirla tale, un motivo è costituito dalle piante raffigurate ai suoi piedi: celasto, pelisella, caledonia che sono curative per gli occhi, non meno intrigante il suo particolare sguardo di traverso, che va oltre il Polittico. Alcuni particolari ci mostrano la notevole attenzione o meglio passione di Grünewald per certi aspetti sempre caratterizzati come gli strani movimenti delle dita (una vera e propria costante di tutta la sua produzione) o le plissettature, ricordiamoci il bellissimo disegno della Vergine annunciata.
Anche in un altro disegno (Berlino, Staatliche Museen) ritroviamo queste passioni, una S. Dorotea, martire del III sec., veramente entusiasmante per chi ama il disegno appunto. È un disegno a carboncino poi ripassato con acqua, come si fa nell’acquarello, in cui si evidenzia un’alternanza degli scuri e delle luci, nonché delle sensibili e morbide varianti dei mezzitoni. Mentre nella parte del volto prevale la luce che sfalda lo stesso disegno, immergendo la testa nella luminosità dell’aureola, che ha quei tocchi immediati e liberi, ma sensibili, di carboncino, i capelli si immedesimano con la verticalità della stoffa sul petto o a onde sulle spalle. L’artista introduce curve, volute e una quantità di minime pieghe, incrinature e attorcigliamenti, che seguono un ritmo serrato e danno una vibrazione continua alle varianti luminose. E quella testa che, tutta inclinata, ad anticipare forse l’effetto della prossima decapitazione, dà un effetto di leggero e sciolto dinamismo a tutta la figura, ingentilita dal delicatissimo gesto delle dita che trattengono il candido fiore.
Ma non possiamo dimenticare due altri disegni di studi per due apostoli della Trasfigurazione (Dresda, Staatliche Kunstsammlunghen). Le figure, se pur inginocchiate se non quasi sdraiate, non reggono la luce potente della Trasfigurazione. Il tratto del carboncino è qui più forte, tant’è che i bianchi sono ripresi con tempera bianca, la luce dall’alto inonda le schiene. Un dinamismo statico.
Quale doveva essere la forza di quel dipinto, un’idea la possiamo intuire dalle parole di Sandrart: “Ma un opera particolarmente degna di elogi è la Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor, da lui dipinta con colori ad acqua: in primo piano vi si vede una nuvola meravigliosa in cui appaiono Mosè ed Elia, al di sotto della quale, stanno gli apostoli in ginocchio. Questo dipinto è così notevole per l’invenzione e la tinta che non è superato da nessun altro; si può anche dire che è, nel suo genere, incomparabile e una madre di tutte le Grazie”. Enorme il rammarico che questo capolavoro sia andato perduto.
E chiudiamo con quello che probabilmente è, a tutt’oggi, l’ultimo suo dipinto del 1525 circa, un Cristo morto, olio su tavola di 36 x 136 cm, attualmente nella Collegiata di S. Pietro e S. Alessandro ad Aschaffemburg, e, considerando gli stemmi ai lati del dipinto, probabilmente l’ultima commissione dell’Arcivescovo di Magonza Albrecht von Brandenburg, (che è ritratto mentre sostiene lo stemma e il cappello cardinalizio sopra la croce), prima di perdere l’incarico di pittore di corte. Vista la particolare dimensione e composizione si suppone che possa essere la predella di una Pala d’altare o di un polittico. Infatti tale ipotesi è surrogata dai tagli del braccio e della gamba, dalla dimensione dei due stemmi, eccessiva se fosse un’opera a se stante, dalla base della croce e della scala per la deposizione, ma in particolare dal taglio, che direi più da fotografia che pittorico, della figura in secondo piano, indubbiamente la Madonna, con quelle due mani che mostrano il consueto strano intreccio delle mani grünewaldiano, in cui è qui, ma lo abbiamo già visto, significativo il vuoto tra l’indice e il medio della mano sinistra, un buco in una unitarietà. Una morte nella vita. Qui c’è il sangue che sgorga ancora dalla ferita del costato, ma il corpo è molto meno lacerato rispetto al Compianto di Isenheim. La sensazione che suggerisce il corpo del Cristo con la testa molto inclinata e che appoggia sulla spalla, la mano semisollevata, come la gamba, è che poi ci sarà il risveglio o meglio la resurrezione. Ben diverso dal concetto di morte assoluta che osserviamo nel Cristo morto del Mantegna. (studio recentemente pubblicato in questa sezione Capolavori).
La straordinaria Arte di Grünewald è decisamente complessa nei suoi diversi valori culturali ed umani, quanto è limpida ed immediata nei valori della Pittura, il suo non è semplice virtuosismo o talento naturale, ma è il dominio della sua mente sullo strumento pittura, che non è da tutti, anzi è di pochi. Nella sua opera trasmette il senso della realtà, da non confondere col realismo, che riporta ciò che vede l’occhio ma da fuori, all’esterno. La sua è la realtà della vita, quella di tutti i giorni, che ti segna, ti fa, anzi ti costringe a riflettere e ripensare l’accaduto, perché lo vivi sulla tua pelle…che è poi anche quella pelle che si può riempire di pustole malefiche. Non fa uso di allegorie, nessuna idealizzazione nei volti e negli atteggiamenti. Ciò che si vede è la trascrizione delle diverse materialità delle stoffe, dei legni e dei corpi, mentre la diversa dimensione rivela la diversa condizione. Nel Cristo morto la dimensione dell’arcivescovo che si tiene stretto lo stemma è uguale a quella dell’uomo con la cuffia bianca che prega, intensamente, nella speranza che un possibile intervento divino migliori le sue condizioni, un divino che è lì davanti, grande e immenso rispetto a lui. Qui c’è ancora tutta la religiosità e spiritualità medioevale, che permea il quotidiano e lo segna ineluttabilmente. L’espressività diviene fondamentale: i sentimenti, il dolore, l’amore o la bellezza, nella loro variabilità o intensità possono portare anche ad estreme deformazioni. E qui una cosa ci deve far riflettere: i nazisti hanno considerato la sua Arte “Entartete Kunst”: Arte degenerata, perché in un certo senso quasi espressionista, ma chi infierì sui corpi dei suoi simili fino a renderli più straziati di quelli dei martiri di Grünewald? Chi furono più degenerati dei nazisti? Melantone, umanista, riformatore, una delle personalità culturali più rilevanti del cinquecento tedesco, amico di Lutero, fece una specie di graduatoria, ponendo al centro il Grünewald con il suo stile tra il “sublime” e l”umile” e riconoscendone la profonda tragicità, e dall’altra parte il “sublime idealizzante” di Durer opposto al “carattere quotidiano” di Cranach. In particolare, è il rapporto con Durer che è chiarificatore, questi è l‘autentico rappresentante del Rinascimento tedesco, che rielabora la lezione di quello italiano, conosciuto molto bene grazie ai suoi viaggi; nella sua pittura la forma e la linea sono determinanti, ed egli stesso dichiara che per lui era rilevante il giudizio dei suoi colleghi artisti e non quello del popolo, mentre per Grünewald è esattamente il contrario. Qui vediamo il Polittico Heller, di cui abbiamo già parlato, col pannello centrale dell’Incoronazione della Vergine che purtroppo è una copia, in quanto l’originale del Durer è andato distrutto da un incendio nel 1729. I due pannelli laterali sono opera della bottega. L’equilibrio compositivo, luminoso e coloristico è ciò che si evidenzia immediatamente, dopo si va a vedere cosa è stato rappresentato, con Grünewald è sempre il contrario, sei subito aggredito e sovrastato dal soggetto, poi, vai ad osservare come ciò accade, non è rinascimentale ad oltranza come Durer, è rinascimentale o gotico a seconda delle sue necessità, o meglio volontà.
Egli piega il linguaggio a seconda del risultato che ritiene più efficace. Non concepisce le sue opere metodicamente o teoricamente, usa la sua capacità di esprimere con immediatezza e senza compromessi i contenuti che oggi chiamiamo psicologici. È in tutto e per tutto figlio del suo tempo e luogo, la sua drammaticità visionaria si nutre dei componenti dell’animo umano quali angoscia, peccato, ansie, paure che prevalgono sull’amore e la dolcezza per le difficoltà della vita quotidiana, rimane sempre legato ad un ganglio materico, che lo tiene strettamente avvinto alla terra ed alla sua realtà. È profondamente uomo, ma che Artista!