PALAZZO ARESE BORROMEO (17

SALONE DEI FASTI ROMANI 

Corrado Mauri

Eccoci ora in quella che è, indubbiamente, la Sala più rilevante di Palazzo Arese Borromeo sia dimensionalmente, sia iconologicamente ed anche rispetto all’asse urbanistico che abbiamo visto all’inizio del nostro percorso. Siamo fisicamente sopra l’asse, ci affacciamo dal balcone sulla piazza Esedra o del Teatro, infatti nell’inventario del 1762 viene detta, appunto, Salone sopra la porta verso il Teatro.  Abbiamo anche già puntualizzato come entro la prima metà degli anni Sessanta, dopo l’inserimento del lato est con la Loggia, questo Salone viene sopraelevato per portarlo alla stessa altezza della Loggia. L’utilizzo del Salone era quello di massima rappresentanza, di grandi eventi, banchetti, feste e balli, a sancirlo la presenza nel secondo registro dei due balconcini, con balaustre in ferro battuto, non tanto differenti da quella in facciata, che accoglievano i musicisti. Ovviamente l’apparato decorativo rispecchia pienamente la funzione dell’ambiente ed è uno dei più ricchi e sontuosi del Seicento lombardo, non solo per l’aspetto estetico ma per la sua pregnanza culturale.

Infatti, la straordinaria rilevanza delle quadrature architettoniche costituisce l’elemento unificatore e organizzatore di tutta la narrazione storica. Riscontriamo un ulteriore aspetto, che non ci sorprende per niente: pur essendo il luogo di feste e balli, ciò che ci viene posto sotto gli occhi e raccontato non è lieto e leggero o di intrattenimento, ma addirittura ci viene fatta una sintesi della Storia di Roma, di una delle più grandi civiltà nella storia dell’uomo. Bartolomeo non si smentisce mai, è imperterrito nella sua costante volontà di insegnamento.   La struttura si costruisce nel rapporto simmetrico tra le pareti frontali :le nord e sud si caratterizzano con la presenza di un grande arco centrale in cui è raffigurato un importante soggetto affiancato da colonne che hanno spazi diversi tra di esse, in quelli più stretti sono presenti delle statue in finto bronzo, in quelli più larghi degli episodi storico simbolici relativi ai personaggi delle statue.  Nelle pareti est ed ovest la presenza di finestre e della porta-finestra che si affaccia sulla piazza, costringe a delle varianti, non ci sono le colonne, ma al centro vengono inseriti due straordinari archi di trionfo, ai lati abbiamo le statue bronzee di altri personaggi e sopra le finestre i relativi episodi storici. A riportare unitarietà nella struttura ci pensa il secondo registro, che ha una balconata continua nelle quattro pareti, con i balaustri identici a quelli della Loggia. Nelle pareti nord e sud la presenza dei balconcini e della relativa porta di accesso, sulla quale è posto un monocromo, costringe all’inserimento di bassi pilastri con fantasiosi capitelli e statue di putti che reggono degli stemmi i quali presentano intrecci delle lettere di nomi degli Arese e dei Borromeo.  Alla balconata si affacciano oltre cinquanta personaggi, rappresentanti dei vari ceti sociali.

La cronologia indica dove iniziare la lettura della narrazione. Per queste descrizioni tengo conto di un articolo[1] e di una Conferenza di Massimo Benzo, socio di Vivere il Palazzo, che si è tenuta proprio in questa Sala, nel 2008, con la partecipazione della Prof.ssa Maria Luisa Gatti Perer, in cui è stata proposta una nuova interpretazione dell’affresco centrale della parete nord sulla base della puntuale lettura dell’Eneide di Virgilio, permettendo così una ulteriore interpretazione dei significati generali della Sala ed una loro comprensione più ampia ed articolata.

Il primo personaggio è nella parete nord a sinistra: Romolo, fondatore e primo re di Roma. La sua statua è posta su un piedistallo su cui è scritto Romulus / bello / fundat “Romolo fonda [Roma] con la guerra”, ed è colto in movimento, cammina e tiene con la destra una spada, pronto alla difesa, e nella sinistra lo scettro. Nell’episodio che lo accompagna è stato scelto il momento chiave della sua storia, il simbolo stesso di Roma, la lupa che lo allatta insieme al fratello Remo. Nella targa sottostante è scritto Mars vitam, lupa lac dedit, et mens vivida sceptrum. / Sors, deus, et virtus quam bene regna parant: “Marte gli diede la vita, la lupa il latte, l’intelligenza vivace lo scettro. Come preparano bene il regno la sorte, il dio e il coraggio”, cioè l’insieme di circostanze che permisero a Romolo di costruire il suo potere. Tutti i versi che compongono i testi dei cartigli che sono posti sotto ogni singola scena sono composti da Carlo Maria Maggi, scrittore e poeta, grande cultore del mondo classico e amico del Presidente Arese che lo nomina Segretario del Senato di Milano. Di questo abbiamo testimonianza da Ludovico Muratori (anche lui sarà ospite a Palazzo) che lo racconta nella “Vita di Carlo Maria Maggi”[2] Ma in primo piano è stato inserito un uomo che, seduto su una sponda, rovescia dell’acqua da un’anfora: è la personificazione del fiume Tevere. Questo insieme è particolarmente significativo in quanto ci sottolinea come all’inizio di una delle Civiltà storiche più importanti la Natura (la lupa e il fiume) è presente e partecipe. Teniamo conto che possiamo essere entrati nella Sala direttamente dalla porta della Boscareccia in cui sono puntualizzati i valori della Natura e quindi ecco il suo stretto rapporto e l’interdipendenza con la Storia.

La seconda statua è quella di Numa Pompilio, re e sacerdote insieme, infatti tiene in mano un turibolo per l’incenso e la testa è coperta. Sul piedistallo Numa / religione / firmat “Numa rafforza [Roma] con la religione”, sulla targa ancora leggibile: Tura, sacerdotes posui, et delubre tonanti. / Religio regnum sola fovere potes: “Ho disposto gli incensi, i sacerdoti, e i templi per colui che tuona (Giove). Solo con la religione puoi mantenere il regno”. Nella scena è appunto raffigurato un sacrificio: davanti alle colonne di un Tempio c’è l’altare su cui Numa si appresta a compiere il sacrificio del vitello cinto d’alloro e lì condotto, mentre si accende il braciere ed un giovane tiene l’anfora con l’acqua. Viene dichiarata la necessaria partecipazione della religione per una giusta e saggia gestione del potere e di un regno.

Ci spostiamo alla parete est dove la statua dipinta raffigura Anco Marzio, quarto re di Roma che seppur raffigurato come guerriero, nella scritta del piedistallo è detto: Ancus / edifitiis / amplificat : “Anco ingrandisce [Roma] con gli edifici”. Nel cartiglio sotto l’episodio è rimasto leggibile ben poco ..op../..a..cate..inge.. ma la scena esemplifica chiaramente l’impegno costruttivo di questo re, con le fortificazioni del Gianicolo e il ponte Sublicio, il primo sul Tevere.

La quarta finta statua raffigura Tarquinio Prisco, quinto re di Roma, che conquistò altri territori e la tradizione narra che aumentò il numero dei senatori, fatto che Bartolomeo, quale Presidente del Senato milanese, ovviamente, vuole rimarcare. Nell’immagine è raffigurata anche l’istituzione dei fasci littori simbolo del Senato. Infatti, sul piedistallo è scritto Tarquinius Pr. / senatu / illustrat: “Tarquinio Prisco celebra il senato”, anche qui nel cartiglio rimane ben poco:  .. / ..les menti ac..  

Alla parete sud, che segna il passaggio dal periodo della monarchia a quello della repubblica, la statua raffigura Lucio Giunio Bruto, uno dei primi due Consoli, che come vediamo nell’episodio ha ai suoi piedi due teste mozzate. Infatti Lucio arrivò a condannare a morte, per decapitazione, i propri due figli rei di congiura nei confronti della repubblica per rimettere sul trono Tarquinio il Superbo. È significativa la scelta di questo episodio decisamente tragico da parte di Bartolomeo che vuole esprimere quanto sia pesante la responsabilità di chi ha il potere, che deve sacrificare il bene della propria stessa famiglia per il bene dello stato di cui è responsabile; direi un messaggio decisamente forte. Ma un altro particolare è significativo: nella statua Lucio Giunio tiene con due dita un pugnale, l’arma con cui la nobile romana Lucrezia si è suicidata per difendere il suo onore, dopo essere stata violentata da Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo.  Pugnale che lo stesso Bruto, parente di Lucrezia, tolse dal suo corpo e mostrò al popolo romano suscitando, così, la rivolta dei romani che cacciarono il re e instaurarono la repubblica. Nel cartiglio la scritta recita Civis…impius urbem / (et) regem et natos libero, pello, neco: “Cittadino…spietato, libero la città, allontano il re, uccido i figli”.

Al lato opposto della parete abbiamo la statua di Scipione Emiliano, detto Africano Minore. Sul piedistallo Scipio / excidio / ulciscitur: “Scipione vendica [Roma] con lo sterminio”. Sul cartiglio si legge: Atollit Carthago (meos) eversa triumphos / extinta gloria urbe “Annientata con vanto la città, Cartagine distrutta accresce i miei trionfi”. Come suggerisce Benzo, nella parete opposta abbiamo il grande affresco con Enea e Didone e con la storia dell’amore tradito di Didone quale origine mitologica della rivalità tra Roma e Cartagine, che si sviluppa realmente nelle guerre puniche.  Notiamo qui la connessione con gli episodi descritti all’interno della Sala e quindi la loro scelta ben precisa, come vedremo più avanti.

L’ultima parete è quella ovest, e corrisponde alla fase imperiale della Storia di Roma, che prende l’avvio proprio con Giulio Cesare, la statua del quale ha la scritta Cesar /utroque / auget: “Cesare accresce [Roma]con l’una e con l’altra”. Nel cartiglio è rimasto leggibile solo: ..dignus honore.. “..degno di onore..”,  qui abbiamo la raffigurazione di un episodio, Cesare che sta nuotando; non riscontriamo elementi che possano fare riferimento ad un naufragio o ad episodi veri della vita di Cesare anche se similari, solamente due navi che tranquillamente veleggiano, solo Cesare, straordinario nuotatore, che si muove nelle acque agitate spingendosi con le sole gambe in quanto ha le mani occupate, con la sinistra regge e sostiene un libro, con la destra tiene la spada e raggiunge la riva rocciosa su cui c’è un albero rinsecchito e spezzato, segno di necessario rinnovamento, che avverrà grazie all’uomo di cultura e guerriero. È il libro alzato il riferimento fondamentale per ri-crescere nuovamente e questo Bartolomeo ce lo ha già ripetuto più volte.

Virgilio nell’Eneide (primo libro) parla di Cesare quando Giove si rivolge a Venere a proposito delle sorti di Enea e dice “Nascerà dalla bella ascendenza il romano Cesare, / che porrà come termini all’impero l’Oceano, alla sua fama gli astri, / Giulio, nome derivato dal magnifico Iulo”. Di nuovo un collegamento tra gli episodi della Sala.

L’altra finta statua è quella di Ottaviano Augusto, primo imperatore, che regge un ramo di ulivo, ai piedi della statua la scritta: Octavius / pace / tranquillat: “Ottaviano rende tranquilla [Roma] con la pace”. Del cartiglio sotto l’episodio non è rimasto nulla di leggibile. A questo proposito, ho il sospetto che ci possa essere stata una volontà di cancellare alcune scritte, non tutte, per la presenza di una colorazione verde che le ha coperte, non si sa in quale momento e soprattutto perché.  Nella scena Ottaviano tiene nella mano la serratura del Tempio di Giano che ha chiuso definitivamente. Questo era un Tempio voluto da Numa Pompilio, aperto esclusivamente in periodo di guerra, il chiuderlo definitivamente sanciva una pace duratura, la pax augusta.

Sulla grande macchina architettonica della porta finestra, sempre di questa parete, campeggia un busto, omaggio al grande poeta narratore Virgilio, riferimento storico letterario chiave della Sala dei Fasti Romani, soprattutto, ma non solo, per il grande affresco che ora analizziamo. Sulla parete di fronte, alla stessa altezza, un altro busto che, come indica giustamente Benzo, è quello dell’ altro grande poeta narratore Omero, e non il Carlo V proposto da A. Spiriti[3], che narra tutta la storia antecedente a quella che Virgilio ricomincia, dal momento interrotto da Omero, nell’Eneide. Con Virgilio l’epicentro storico si focalizza al centro del Mediterraneo, l’asse si sposta, non è più verso l’Asia Minore.

Come afferma Benzo, l’affresco nel grande arco centrale della parete nord è una puntuale narrazione dall’Eneide di Virgilio con due momenti chiave raccolti in una sola immagine: dal primo libro, dopo la generosa accoglienza di Didone ad Enea ed ai Troiani, Venere chiede al proprio figlio Cupido di assumere le sembianze di Ascanio (Iulo), figlio di Enea che, abbracciando la regina Didone fa scoccare l’amore di questa per Enea; dal quarto libro l’episodio con l’intervento di Mercurio che impone ad Enea di partire da Cartagine. 

Cominciamo dall’alto: Cupido assume le sembianze di Ascanio “..perchè Cupido mutato nell’aspetto e nei lineamenti / venga al posto del dolce Ascanio e infiammi con quei doni / fino alla follia la regina / e le appicchi l’incendio alle ossa..” L’abbraccio affettuoso con Cupido di un altro putto è simbolico e anticipatore, mentre il putto rovesciato con la benda sugli occhi è, forse, l’Ascanio vero nascosto ed addormentato, per mettere in atto il dramma amoroso.

Nella parte destra vediamo l’abbraccio a Didone del falso Ascanio che le infonde l’amore per Enea, due ancelle sono presenti ed alle spalle della regina è probabilmente la fedele sorella Anna. Nello sfondo la città di Cartagine che Didone stava costruendo ed amplificando con il contributo di Enea.

Dall’altro lato ecco la figura di Enea, vestito puntualmente come lo descrive Virgilio, con la spada al fianco con il diaspro che la caratterizza e il mantello rosso dono di Didone. Tiene il bastone del comando nella mano destra, ma è posto, con il suo fedele compagno Acate, su di un piedistallo che sporge dalla scena, non è all’interno dello spazio di Didone e della città in costruzione, è già al di là nel momento stesso in cui gli appare Mercurio, inviato da Giove, che gli impone di abbandonare Didone e Cartagine e di avviarsi al suo destino, verso l’Italia, concretizzando, così, le profezie. La Storia è già in atto, non a caso Mercurio col dito indica la scena laterale in cui Romolo e Remo sono allattati dalla lupa, la storia successiva che si avvera.

Di fronte, sempre sotto un arco, l’affresco è ancora più articolato rispetto a questo che abbiamo appena analizzato. Una rigogliosa fanciulla bionda, in abito bianco, segno di purezza e castità, è come assistita da cinque putti che nel loro operare la qualificano come Chiesa cattolica romana. A destra uno reca la tripla croce papale, altri due le sistemano il piviale, il quarto le impone il triregno sancendo il potere religioso, mentre il compagno le ha appena tolto l’elmo, il potere temporale, e se lo mette in testa di traverso come in un gioco, sancendo invece la necessità che la Chiesa non si occupi di guerre e di potere terreno. A ribadire ciò un sesto putto od angioletto, più indietro si allontana con una lorica, altro simbolo militare che partecipa di quello temporale. Ma la Chiesa tiene con la destra uno scettro d’oro, segno di potere comunque, pur se spirituale. La mano sinistra invece poggia su un’aquila che, avendo i fulmini trattenuti sotto la zampa, è l’animale simbolo di Giove, non, come potrebbe sembrare, l’aquila degli Asburgo. E qui sta, per me, il punto fondamentale e altamente significativo: sia l’aquila sia la Chiesa sono sopra un reperto archeologico deteriorato e quindi più antico, la storia precedente rimane come dato inconfutabile, la Sala delle Rovine lo ha appena dimostrato. Prima della religione cristiano-cattolica c’era quella pagana e quindi è la Religione in sé che conta nella storia dell’uomo, che diviene per lui un dato imprescindibile indipendentemente dal tipo di religione. Ecco una visione universalistica e non settoriale da parte di Bartolomeo III che spazia, non si concentra su un dato, ma pone in sequenza gli episodi della Storia. In tal senso ecco che il rapporto con l’affresco con Enea assume un legame più stretto, in quanto anche lì abbiamo una divinità pagana, Mercurio (per conto di Giove), quindi la religione, che indica all’eroe il percorso che deve compiere.  Un altro particolare dell’affresco è intrigante, alle spalle della Chiesa c’è un Tempio antico in rovina, sul tipo di quelli del Ghisolfi per intenderci, da cui un pontile va verso qualche altro edificio, segnando un trasferimento, più indietro non abbiamo una basilica, ma un edificio circolare a più piani che è incompleto nella parte alta ed invaso dalla vegetazione. È in abbandono ed il pensiero non può andare che alla Torre di Babele, un prodotto della superbia umana fallita. Ancora oltre due grandi archi con balaustre e quindi luoghi di passaggio, di transito. La successione delle epoche storiche è un dato di fatto che precede il momento in cui la Chiesa cattolica deve assumere il solo potere spirituale ed allora la Fama, per celebrare la Chiesa, suona le due lunghe tube talmente forte che scaccia assordato il Tempo, così che questa rimarrà nei secoli.  Un particolare non va dimenticato e sono i due galeri cardinalizi che segnano la presenza nella famiglia di alti responsabili religiosi, qualifica sociale importante.

Non si può che essere d’accordo con Benzo quando propone per l’insieme di questi due affreschi, ma direi per l’insieme dell’intero Salone, visti i continui rimandi, il riferimento alla teoria di Dante, esposta nella sua opera Monarchia, delle “due grandi luci” che Dio avrebbe messo a disposizione degli uomini per vivere nella pace ed aspirare poi al Paradiso. Le due luci sono l’Impero, che prende origine appunto da Enea, e la Chiesa cattolica, sotto l’autorità papale (vedi nota 21). Opera che indubbiamente l’Arese poteva conoscere e prendere come possibile riferimento. Ma va constatata la forza e il coraggio delle proprie idee del nostro Bartolomeo che, pubblicamente, dimostra e dichiara una concezione e una visione politica e storica che va ben al di là dei confini geografici, ideologici e religiosi, cosa che, nel secolo degli assolutismi e dell’Inquisizione, non è poco. Ma riprenderemo il tema nella Cappella privata. 

Osserviamo ora, il secondo registro iniziando, come per le statue, dalla parete nord. Le persone presenti, appartenenti a vari ceti sociali, parlano tra di loro, guardano verso il basso e commentano. C’è una partecipazione con quanto avviene nel Salone, ma anche su quanto vi è raffigurato, potremmo quasi dire che c’è un invito a chi arrivi a sentirsi parte di una comunità attiva e operante. Ai lati del balconcino abbiamo una giovane che suona un tamburello e dall’altra parte un suonatore di liuto, a qualificare la funzione dei balconcini. Altrettanto per la parete sud.

Diversa l’impostazione delle pareti est ed ovest, per la presenza delle finestre, che porta a selezionare gli spazi ed i personaggi raffigurati alle balconate: un maestro di musica, giovani che suonano, una bambina che canta, un popolano con la mano aperta e volta al fianco e in basso che discute con un personaggio con mantello verde ed occhiali che osserva, anche lui, l’immagine sottostante dei gemelli allattati dalla lupa.  Sulla parete est un trio di suonatori in divisa, di cui uno ha appeso alla sua lunga tromba un vessillo con lo stemma Arese. Di lato un altro trio, ma di contadini: quello con un cappellaccio, ma piumato, accarezza il pappagallo che ha tolto dalla gabbia, ma con l’altra mano accarezza anche il petto di una giovane, che pare compiaciuta, dietro, in ombra, un altro contadino sta indicando un qualcosa al di là del loro spazio, dove vediamo un piccolo vano, ma vuoto. All’altro estremo della parete c’è un identico vano ma qui un uomo, vestito di nero,  invita al silenzio. Forse, proprio perché è vicino ai suonatori di tromba, ma l’invito è congruente, dopo i momenti della musica e delle parole, la pausa e la riflessione sono opportune se non necessarie. Potrebbe sembrare in contradizione con la straordinaria ricchezza dei messaggi storico-culturali che continuamente riceviamo in questo ambiente, ma non dimentichiamoci che siamo in una residenza di campagna, per il riposo, la pausa dagli impegni, le quattro boscarecce ed il Fattore-Bartolomeo ed allora anche il silenzio è produttivo. 

Una ultima presenza decisamente significativa è quel personaggio raffigurato nell’angolo in basso della parete nord, a lato della porta che introduce alla Sala del Castello, punto scelto molto opportunamente e volutamente. È l’unico personaggio raffigurato a livello del pavimento, veste abiti semplici seicenteschi, segna quindi la contemporaneità in un ambiente in cui sono rievocate soprattutto epoche del passato, tiene il cappello in mano in segno di rispetto ed ha un libro sotto il braccio sinistro. Sul bordo del libro è scritto, non leggibile la prima parola, ..DELA FABrica DI CESANO. Si tratta indubbiamente di Giovan Battista Monti, l’amministratore del Palazzo, che tiene i conti della Fabbrica. Ed è collocato dove, opportunamente, può poi accompagnare nella Sala del Castello in cui, come vedremo, sono rappresentate le proprietà Arese e Borromeo.

Ora, debbo fare una del tutto nuova osservazione su un particolare, che nei ben 23 anni di frequentazione e studio del Palazzo, non ho mai constatato, ma neanche è stato oggetto di analisi con i soci ed amici dell’Associazione Vivere il Palazzo e neanche negli ormai numerosissimi testi od articoli su Palazzo Arese Borromeo. Avevo già analizzato buona parte degli affreschi della Sala del Castello e mentre descrivevo le complesse strutture quadraturistiche delle sovrapporte, improvvisamente ho sentito la necessità di confrontare le porte di quella sala con  quelle del Salone dei Fasti Romani accorgendomi così della totale assenza di elementi decorativi nelle seconde, ma anche della differenza delle porte stesse, che in tre casi non sono a doppio battente, ma intere e senza nessuna colorazione, in legno naturale scuro. Quella che proviene dall’Anticamera ad Architettura manca addirittura ed è presente solamente la solita porta a doppio battente: una sostanziale differenza con tutte le altre Sale affrescate e porte del Piano Nobile.  È assolutamente certa una scelta ben precisa, come del resto è in ogni aspetto del Palazzo, come abbiamo ampiamente dimostrato. Quale potrebbe essere, dunque, questa motivazione?  Riflettendo sulla funzione della

porta, ovviamente, questa permette l’entrata o l’uscita da un ambiente all’altro, stando chiusa od aperta. Gli apparati decorativi e la colorazione delle porte sottolineano, direi invitano, al passaggio, a doppio senso, da un ambiente all’altro, onde conoscere nuovi messaggi o racconti, non sono delle barriere. Nel Salone è chiara una situazione opposta, la porta non viene evidenziata o sottolineata, costituisce una netta barriera nel tono scuro che non ha alcun elemento che faccia da tramite, nella forma o nel colore, tra essa ed il resto della narrazione pittorica. Sei chiuso dentro, per andare oltre devi compiere un atto di volontà: aprire ed uscire. Il chiaro invito è rimanere qui e comprendere tutto quanto ci è raccontato (come abbiamo visto), sedimentarlo e farlo nostro, un bagaglio culturale che ci accompagnerà sempre. La Boscareccia è la Natura in cui siamo costantemente, le Rovine le incontriamo ed ammiriamo e pensiamo al passato, dei ritratti dei personaggi riconosciamo l’importanza, ma li possiamo incontrare, gli stemmi ed il contadino sono la realtà della vita nelle differenze sociali, ma la Storia la dobbiamo studiare, conoscere con un atto di volontà, non ci viene regalata spontaneamente. Questa la spiegazione che mi do, un’ ipotesi certamente, suggeritami da quello che ho appreso ed imparato dal nostro Bartolomeo, un grande Maestro ed un vero amico.


[1] Massimo Benzo, Il Salone dei Fasti Romani a Palazzo Arese Borromeo di Cesano Maderno: una rilettura e alcuni approfondimenti, Arte Lombarda ISAL, n° 151 2007/3 Nuova serie

[2] Clotilde Fino Il poeta Francesco de Lemene e Bartolomeo Arese, Quaderni di Palazzo Arese Borromeo, Anno VI – n° 2 – Nov. 2013, pag. 13  www.vivereilpalazzo.it

[3] A. Spiriti, Le case e la gloria: il grande salone, in M. L. Gatti Perer  a cura di, “Il Palazzo Arese Borromeo a Cesano Maderno”, Milano 1999, pag. 72